Introduzione

di Grazia Marchianò

I.

Mai come oggi la mente è assetata di sapienza; di tutti i piaceri da gustare, di tutti i bisogni e i desideri da colmare, la sapienza è il più sottile, la quintessenza del possesso, anche se la sua distanza da ciò che s'intende ordinariamente per " proprietà" è la massima immaginabile. Infatti non è una cosa, concreta e palpabile, non è un'idea astratta né alcuno dei sentimenti, delle passioni che ingombrano il cuore, non è una dottrina, una religione, una filosofia della vita o della morte, non è un'arte della conquista o della rinuncia benché sembri tale, non corrisponde ad azioni da compiere, non produce fatti misurabili, nemmeno è un sistema di memoria, un teorema o un procedimento di logica. Interpellata come un concetto non reagisce alla deduzione, all'analisi e alla sintesi. Valutata come ipotesi, rimane inalterata; respinta come irreale, resta dov'è, inesorabile e inviolata.

Dicono che assomigli a un tripudio, un gaudio immenso che sconvolge la persona trasumanandola, al punto che niente - al di là della forma corporea - sia più riconoscibile come la persona di prima. Ma al tripudio, vissuto come una vertigine qui-ora, subentrerebbe nella nuova persona una quiete serafica, una specie di ritmo aggiunto al respiro fisiologico, quando inspira - assorbe l'esperienza del mondo -, quando espira - profonde nel mondo l'esperienza di sé -.

Oltre al tripudio e alla quiete costante, la sapienza largirebbe la facoltà di stare nel mondo come spettatori impassibili, di penetrare nella veglia la natura del sogno, e valicare consapevolmente anche il sonno profondo per guizzare al di là, nel cosiddetto quarto stato, come pesci immersi in un lago di luce.

Al destino della necessità che incombe sull'uomo comune, preso nella stretta del piacere-dolore, si sostituirebbe il destino della libertà: libertà di aderire alle cose-come-sono, qui-ora. Il tempo, scrutinato fino in fondo, perderebbe i due connotati che più avallano il suo prestigio per la vecchia persona: il passato, fatto di memoria, e il futuro, impregnato di attesa. Affacciata sull'abisso del qui-ora, attorniata dagli specchi che rimandano i suoi "doppi" stralunati e surreali, la persona sarebbe colta da un incontenibile riso, poi da un'immensa pietà, infine da un desiderio fortissimo definitivo di uccidere la vecchia identità e predisporre uno spazio, lindo e vuoto, dove ospitare la nuova persona che, a quel punto, cesserebbe di essere ciò che designa il termine "persona" - maschera e corpo d'ombra - e diventerebbe pura coscienza consapevole, il testimonio imperturbato e desto, appunto il sapiente.

È giusto che la sapienza ci sia giunta frammentaria, perché è per natura sporadica. Come certe perturbazioni, ha un andamento a meteora: può apparire simultaneamente in zone assai distanti, o scomparire per lassi lunghissimi.

La sapienza non ha storia, benché con qualche sforzo si possa tracciare la parabola del suo sorgere e tramontare in certe culture, a loro dispetto. È odiata come poche altre realtà della vicenda umana perché è fatta per sconvolgere gli equilibri della ragione e gli interessi del potere. Non è stata mai veramente desiderata neanche dai pochi che dichiarano di amarla, perché si preferisce tenerla sulla striscia dell'orizzonte, a portata di sguardo, non di mano, certi che essa ne sarebbe bruciata. Si trae sollievo pensandola antica, addirittura ancestrale: madre di archetipi, affabulatrice di miti, levatrice perpetua di simboli, sogguardati con astio da chi teme di venirne ghermito. Tuttavia, benché improponibile se non come alternativa alla vita stessa, la sapienza può essere almeno fiutata, come fanno certe bestie roteando attorno a un cadavere, o contemplata con l'imbarazzo e lo stupore che si provano accanto a un agonizzante negli attimi che precedono il trapasso - e le pupille invetriate indicano l'" altro" orizzonte, dal quale il mondo appare com'è, ma non si può riferire -.

La sapienza, dicevamo, non ha storia, e il sapiente?

Da quali segni si riconosce l'illuminato, il liberato in vita, il due-volte nato? È un asceta, un folle, un buffone, un ribelle, tutto questo insieme o niente di ciò? Il suo "sapere" è un "conoscere", e se lo è, è un avere o un essere, si acquista a fatica o si riceve come un dono in cui donatore e donato si confondono e il dono stesso è l'Uno, senza altro nome che Quello?

Se si volesse azzardare una radiografia del sapiente, è inutile interpellare il passato, inseguire le tracce dei sapienti scomparsi millenni e secoli fa, di cui restano testimonianze indecifrabili: giocava con i fanciulli, rideva ininterrottamente, odiava le fave, parlava agli uccelli.

Ci vorrebbe un uomo vivo, accomunato a noi dalle dipendenze quotidiane; un uomo che si ammala e si cura, che ha degli affetti e un indirizzo, al quale si parla come al vicino di casa, che però non si ascolta come il vicino di casa, perché niente di ciò che dice conferma o blandisce il noto, ma è una sfida continua, una intimidazione costante: è madre-e-padre - ma esorta a smarrire i genitori -; uomo-e-donna - senza le vicendevoli smanie -; fanciullo-e-vecchio - libero dai capricci di entrambi -.

Un fortissimo desiderio ha indotto Castaneda a fabbricarne un facsimile completo, un impeccabile "guerriero" yaqui provvisto di un esilarante "doppio" mazateco. Sporto sull'abisso, Carlos non ha scelta: deve buttarsi nel non-luogo da cui non si ritorna. Sfortunatamente, ha commesso l'errore di tornare, e non gli è stato perdonato, anche perché un sapiente non si fabbrica come un legno che parla: è fatale che tirerà calci al padre!

Decisamente, per radiografare un sapiente dobbiamo trovarlo da noi, magari sollevando le pietre, scandagliando sgabuzzini, cortiletti, persino tabaccherie! Con la conoscenza ha una dimestichezza strana: non si occupa d'altro, eppure la ignora: "Sono come il mercante di grano. So poco di panini e dolcetti. Anche il sapore di un singolo chicco può essermi ignoto, ma sul grano in genere so tutto e bene. Conosco la fonte da cui germina l'esperienza, non conosco e non mi serve conoscere le innumerevoli forme che assume. Di momento in momento, quel poco che mi occorre sapere per vivere, in un modo o nell'altro, riesco a saperlo". (Vedi)

  II.

L'Advaita Vedanta occupa il vasto letto di un fiume di memoria che tramanda alcuni verdetti (mahavakya) in cui la sapienza assurge a un grado di altissima concentrazione semantica. In chi li pronuncia, d'altra parte, si presuppone un grado equivalente di concentrazione consapevole, al punto che tra parola e persona si stabilisce una magnetica identità, un connubio vibrante.

Per misurare la distanza tra la concentrazione semantica di un mahavakya e quella di un comune argomentare filosofico, basta esaminare un trattato sull'Advaita Vedanta, ad esempio, Das System des Vedanta di Paul Deussen.

Circa cinquecento pagine sono occorse all'autore per esporre: 1) una Teologia o dottrina del Brahman; 2) una Cosmologia o dottrina del mondo; 3) una Psicologia o dottrina dell'anima; 4) Samsara: la dottrina della trasmigrazione dell'anima; 5) Moksa, la teoria della liberazione.

Ma ecco che almeno quattro di quelle sezioni sono condensate in un mahavakya di dodici lettere - Sat-Cit-Ananda - dove sat, "essere" e/o "verità" e/o "realtà", concentra la dottrina del Brahman cosmico; cit, "coscienza", la dottrina del sé e dell'autoconsapevolezza; e ananda, l'esperienza beatifica della liberazione. Ma ci sono mahavakya più brevi, come " Ahm , " Io", in cui la concentrazione semantica rasenta quella delle sillabe mistiche nella linguistica esoterica indotibetana. I mahavakya aggregano molecole di sapienza. Assimilati profondamente, trasformano l'atteggiamento della persona e la qualità della sua vita, addestrano a vedere dietro e di là dalle apparenze, a scorgere nel mutevole ciò che non muta, a far librare la mente oltre il pensiero, a trasfondere la vitalità in contemplazione. Dove la parola del verdetto cessa di designare e diventa esperienza del designato, andrebbe rintracciato l'unico punto di congiunzione tra conoscenza e sapienza.

Il referente costante dei mahavakya è la realtà interiore, posta a fondamento ultimo della realtà. L'essere - di cui l'esistenza è l'aspetto esplicito - è coscienza autoconsapevole; la realtà è la propria verità; la non-verità della realtà è la sua apparenza; l'uomo è persona e coscienza: come persona è un "io" condizionato, come coscienza autocosciente è l'essere incondizionato (atman); la consapevolezza di essere si commuta per l'uomo in beatitudine, e la costante beatitudine è, nella vita, la sua esperienza dell'immortalità. La mente è intrinsecamente creativa: "si diventa ciò che si pensa", dice l'upanisad; si ha ciò che si è. Ma l'uomo non diventa, il mondo non evolve, il tempo non esiste, il deperibile nasce e muore; se si crede di essere il deperibile si nasce e si muore, se si denuda il meccanismo del credere e del rifiuto di credere, si è liberi dal meccanismo; la costrizione esterna non costringe ciò che per natura è sottratto alla costrizione.

Nella relazione tra maestro e discepolo, secondo le vecchie regole del costume indù, il mahavakya è il ponte, la corda vibrante che consente all'uno di uscire dal silenzio e all'altro di entrarvi, diventando a se stesso il maestro. Uno dei più sottili insegnamenti advaitini su cui s'impernia la dottrina sancaryana dell'"interno testimone", esorta infatti il ricercatore a destare il "maestro interno", la "propria guida segreta" (sadguru). Perchè è l'Atman che risiede nel cuore il grande Rammentatore, il "maestro dei maestri".

La Kaivalya Upanisad celebra in un canto ininterrotto l'intima gioia del raggiunto isolamento:

10. Soltanto vedendo l'Essere (Atman) in tutti gli esseri e tutti gli esseri nell'Essere si attinge l'assoluto (Brahman), non in altro modo.

[...]

16. Ciò che è assoluto (Brahman), l'essere (Atman) del tutto, la sede del tutto, più sottile del sottile, l'eterno, ciò in verità sei tu, Quello sei tu.

17. Sapendo che "io sono l'assoluto che splende come realtà nella veglia, nel sonno con sogni, nel sonno profondo", si è sciolti da tutte le catene.

18. "Io sono distinto da ciò che sui tre piani è l'oggetto dell'esperienza, / il soggetto dell'esperienza e l'esperienza stessa. Io sono / il testimone, pura consapevolezza, eterna bontà.

19. Tutto-nacque in me, è stabilito in me, io sono l'assoluto senza / dualità.

[...]

23. Sapendo che tale è la natura dell'essere supremo dimorante nel / cuore, indivisibile, unico, onniveggente, senza essere né non-essere, / si raggiunge la pura essenza dell'essere supremo [...]. / In questa forma, sapendo che così è l'essere, si ottiene il / frutto dell'isolamento" (1).

Nell'Avadhut Gita, attribuita al Mahatma Dattatreya, il mahavakya Tat Tvam Asi è direttamente rivolto alla mente:

V. 2. "Tu sei l'Atman di cui le Scritture dicono Tat Tvam Asi (Quello tu sei). Sappi che sei libera da maya. Non lagnarti, mente mia, in verità, tu sei tutto.

[...]

V. 4. Niente di ciò che è immaginato, e neppure l'immaginazione, hanno in te esistenza; sappi che la causa e l'effetto non ti toccano. Libera dalle parole e da ogni espressione, tale sei, perpetuamente identica, mente mia, non ti lagnare".

VI. I. L'intero universo è una proiezione della mente, anzi, è una sua modalità. Quando la mente è sedata, si svela la sua vera natura che è perfetta beatitudine (2).

Aparoksanabhuti, l'assimilazione all'identità suprema, è il mistero che accade a chi ha trasceso la mente, a colui che può dire di sé: Quello sono io. Sankaracarya così la descrive:

12. Chi sono? Com'è creato questo mondo? Di che cosa è fatto? / Questa è la via dell'indagine.

13. Non sono il corpo come combinazione di elementi, né il corpo / come sensazioni (intrecciate), sono distinto da questi. Questa / è la via dell'indagine.

14. Tutto è prodotto dall'ignoranza e scompare grazie alla conoscenza. / La molteplicità dei pensieri suscita il creato. Questa è la via / dell'indagine.

15. La causa di entrambe (dell'ignoranza e della molteplicità dei / pensieri) è la sostanza una, imponderabile, immutevole, come l'argilla lo è dei vasi e degli altri (arnesi di terracotta). Questa è / la via dell'indagine.

16. Essendo io anche l'uno, l'imponderabile, il conoscitore e testimone, la sostanza immutevole, sono dunque Quello. Questa è / la via dell'indagine.

[...]

45. Non esiste nessuna causa materiale dell'universo fenomenico / se non l'assoluto (Brahman). Perciò tutto l'universo fenomenico / non è che l'assoluto (Brahman).

[...]

53. Quando emerge la dualità causa l'ignoranza, si vede un altro da se, ma quando tutto è (visto) come essere (Atman), non c'è / altro da sé.

[...]

57. Il sogno è irreale nella veglia, mentre la veglia è assente nel / sogno. Entrambi sono però inesistenti nel sonno profondo, di cui / a sua volta non si ha esperienza in nessuno dei due.

58. Così tutti e tre gli stati sono irreali in quanto prodotti dalle / tre qualità (fondamentali dell'essere: peso, energia, etere); ma il / loro Testimone, trascendente ogni qualità, eterno, uno, è la coscienza medesima.

[...]

91. Dopo che è nata la conoscenza della realtà, lo scotto dell'esistenza / si cancella poiché il corpo e cose simili diventano inesistenti, / come il sogno al risveglio.

107. Le parole non raggiungono il silenzio e anzi ne rimbalzano indietro, insieme alla mente stessa; con quel silenzio che i / mistici (yogin) raggiungono deve identificarsi il sapiente.

108-109. Chi può descrivere Quello da cui rimbalzano le parole? Anche alla descrizione del mondo fenomenico difettano le parole; / questo e quello è il silenzio che i sapienti chiamano connaturato e / il silenzio mediante l'astensione dalle parole è comandato dai / maestri dell'assoluto (Brahman) ai fanciulli.

[...]

139. Si dovrebbe ravvisare la causa nell'effetto e quindi eliminare / l'effetto; il sapiente diventa ciò che rimane.

[...]

142. Il sapiente, ridotto il visibile all'invisibile, pensi all'universo / come tutt'uno con l'assoluto. Allora avrà la mente del tutto / cosciente e beata, sarà felice in eterno (3).

  III.

Nisargadatta Maharaj, al secolo Maruti Kampli (4), appartiene a una linea di trasmissione marathi del Vedanta monistico, che si fa risalire al Mahatma Dattatreya. Tra i veggenti di epoca vedica, Datta avrebbe istituito il primo lignaggio spirituale (parampara), che nel Maharastra è noto come navnath sampradaya, la "scuola dei nove", cui fu affiliato il maestro di Maharaj e, alla sua morte, lui stesso.

A Dattatreya sono attribuiti l'omonima innodia Datta o Daksinamurti Samhita, di cui una versione ridotta è nel Tripura Rahasya (5), e la citata Avadhut Gita, il "Canto del Rinunciante".

Una tardiva upanisad si potrebbe definire Io sono Quello, e quasi un'ininterrotta continuazione della parola di Ramana Maharshi, cui Nisargadatta da più segni appare afratellato.

Entrambi di origine umile e campagnola, illetterati e padroni di un sola lingua: il tamili per Ramana, e il marathi per Nisargadatta. Entrambi "scoperti" da due europei: Paul Brunton, che divulgò il pensiero di Ramana, e Maurice Frydman che, a Bombay, negli ultimi anni di una vita segnata da numerose conversioni - da ebreo polacco a monaco cristiano a swami indù - divenne discepolo e l'interprete di Nisargadatta, promuovendo la prima edizione in inglese di Io sono Quello (6).

A differenza di Nisargadatta, Ramana non ebbe maestri, non lavorò, non si sposò. Ragazzino, dopo una tremenda esperienza di alterazione della coscienza fino alle soglie della morte, abbandonò il villaggio natale e un richiamo incoercibile lo trasse a un colle, nei pressi di Tiruvannamalai, celebrato in inni bellissimi (7), Arunacala, dove visse in solitaria meditazione e dove in seguito sorse l'asram che prese il suo nome.

Maruti invece crebbe in città, e a Khetwadi, nella suburra di Bombay dove ancor oggi abita, avviò giovanissimo, insieme al fratello, un piccolo commercio di tabacchi, dando via via il benvenuto a molti figli. Quando aveva da poco varcato i trent'anni, un avventore, Yashwantrao Baagkar, lo conduce da Sri Siddharameshwar Maharaj del Navnath sampradaya, e Maruti sotto la sua guida intraprende una disciplina presto costellata di esperienze mistiche. L'"esplosione" interiore avviene dopo tre anni, poco prima della morte del maestro, di cui Maruti assumerà il cognome. Dopo un periodo di solitario vagabondaggio, il ritorno a Bombay, l'abbandono definitivo del commercio, e l'inizio dell'ultima fase, durante la quale lo conobbe Frydman.

Sono trascorsi trent'anni dalla morte di Ramana, ed ora, anche la vecchia bocca di Maharaj, a 85 anni, in un corpo assalito dallo stesso male del Maharshi, si avvia al silenzio.

Forse il modo meno impervio di accostare Io sono Quello è ripercorrere lo stesso tragitto del giovane Maruti alle prese con la sua realizzazione accanto al maestro.

Intontito dalle pratiche yoga che da qualche tempo gli procurano estasi sporadiche, visioni e abbagli subitanei, Maruti un giorno si reca da Maharaj, gli si accoccola ai piedi, e attende. Non sa che quella volta sarà l'ultima, non solo perché il maestro di lì a poco cesserà di vivere, ma anche perché ciò che sta per dirgli è la massima condensazione dell'Advaita Vedanta, e insieme la via diretta all'esperienza metafisica: "Tu sei il Supremo... agisci in conformità". E aggiunge: "Credilo con fermezza, non dubitarne mai, ricordalo senza intermissione". A Maruti non restò che obbedire. "Continuai la mia solita vita, ma ogni momento libero lo passavo a ricordare il maestro e le sue parole. Poiché non le ho dimenticate, mi sono realizzato" (Vedi). Così dice oggi Nisargadatta, a chi lo interroga sulla sua iniziazione. E scende nella stanza, mentr'egli parla con sconcertante umiltà del "grande passo", un silenzio profondo, come quando in un crocchio all'improvviso si scatena un epilettico e gli astanti, raggelati, si fanno muti. Quando il vecchio dichiara: "Sono il Supremo", è fatale che qualcuno, tra gli astanti, lo sogguardi con un'ombra di malcelata ironia, e il vecchio, sollecito, gli si volge sorridendo: "Lo so, è difficile crederlo. Ma se ti dico: metti a fuoco l'"io sono", non puoi esimerti. L'"io sono" è la tua prima percezione al risveglio. Domandati da dove viene o osservalo quieto. Immancabilmente scoprirai tutto ciò che non sei: il corpo, i sentimenti, i pensieri, le idee, le proprietà esterne e interne. Sono tutte auto-identificazioni infedeli. Per causa loro, ti prendi per ciò che non sei". (Vedi)

"Ma io, chi sono?".

Per spiegare l'inspiegabile Maharaj finge di narrare una fiaba: "Nell'immensità della coscienza appare una luce, un puntolino veloce che traccia forme, assembra pensieri e sentimenti, idee e concetti, come la penna sul foglio. Tu sei quel puntolino, e muovendoti ricrei ogni volta il mondo. Ti arresti, e il mondo scompare. Va' dentro, e vedrai che quel punto luminoso è l'"io sono", come il riflesso nel corpo dell'immensità della luce. Solo la luce è, tutto il resto appare". (Vedi)

"Durante la veglia, la coscienza si sposta di continuo da una sensazione all'altra, di percezione in percezione, da un'idea all'altra, senza fine. La consapevolezza è dell'interezza e della totalità della mente penetrate direttamente. La mente è come un fiume che scorre nel letto del corpo, per un momento t'identifichi con un'onda e la chiami "il mio pensiero". Tutti i tuoi oggetti di coscienza fanno la mente; la consapevolezza è lo stato in cui la coscienza è colta nella sua interezza". (Vedi)

L'interrogante vive, mentre ascolta, una strana esperienza: le parole sono semplici, non c'è quasi ridondanza nel fraseggiare di Maharaj. Scarse le consuete metafore vedantine, mute le belle storie della letteratura ascetica. Campito nella nudità del sistema, il solo apologo di Janaka, alle prese col suo sogno di mendicante:

- Quando si svegliò disse al suo maestro, Vasishtha: "Sono io un re che sogna di essere mendicante o un mendicante che sogna di essere re?". E il maestro: " Né l'uno né l'altro, sia l'uno che l'altro. Voi siete e insieme non siete ciò che pensate di essere! Lo siete perché agite in conformità. Non lo siete perché non dura. Potete essere un re o un mendicante per sempre? Tutto muta. Ma voi siete ciò che non muta. Che cosa siete?". Disse Janaka: "Sì, non sono un re né un mendicante, sono il testimone spassionato" -. (Vedi)

L'ascolto ininterrotto e quieto scava, tra il senso delle parole e il loro riverbero nella coscienza, un varco impercettibile, una cesura sottolineata appena, come le linee di biancore sotto gli occhi dei santi imbambolati, in certe icone bizantine, scatenano la contemplazione del vuoto nella forma.

Così s'innescano nell'ascolto la ribellione della mente ghermita dal silenzio nella parola e il tumulto del cuore, perché tra la parola e il silenzio c'è di mezzo la tempesta della vita, l'abiezione della malinconia, l'impotenza di raggiungere la quiete costante. E l'innocua triade: mente, coscienza, consapevolezza; il positivo memento: "Sono"; il saggio consiglio: "Se vuoi vivere una vita felice, cerca ciò che sei", si convertono, al mero ascoltare, in puntute saette che trapassano il comune buon senso. L'"io sono" assume le sembianze di un drago apocalittico che ingoia il tempo risputando la persona a pezzetti; il cosmico metronomo: mondo fisico, mentale, supremo, in andata e ritorno, con forma e senza-forma, diviene il sordo rimbombo dei colpi di martello in un'officina metallica dove un mitico Fabbro, adirato e ossesso, grida Sono Quello!

Smarrito, sconvolto, lacerate le sue credenze più salde, "Sono nato e morirò", l'interrogante ricorre all'estremo tentativo di contestare una parola che l'ha morso e lo attanaglia alla gola: "Perché parlate?".

Maharaj, a quel punto, convoca il Buddha - ed è una delle rarissime volte in cui cita qualcuno, a parte il maestro -. Chiama in causa l'Illuminato per spiegare: l'annuncio è la grande arma. Propagare che possiamo raggiungere, che siamo già pronti per il salto oltre il nome e la forma, la nascita e la morte, il pensiero di essere e l'assillo del non-essere, rende automaticamente immortali; ed è l'unico esperienza d'immortalità consentita nella condizione umana. Ora l'interrogante è placato. Ha vissuto nell'ascolto il supplizio del bardo, la vicenda dell'anima catapultata nello stato intermedio dopo la morte. Quanto tempo è trascorso? Attimi, minuti, ore? "Com'ero stamattina, prima di ascoltare? E ciò che ho appreso finirà nel mucchio tra le altre nozioni, o lo dimenticherò? E che cosa ricordare prima: "Sono", "Non sono la persona", "Sono Quello"?". Al valico della domanda "Chi sono?" si affaccia Quello. L'universo (paramakasa) è la sua sterminata espansione oltre l'essere e il non-essere; l'interno testimone (avyakta) è la sua infinitesima concentrazione oltre il corpo e l'io-persona; il quarto stato (turiya) è la sua indenne dimora, oltre la veglia, il sogno e il sonno profondo. Come sostanza realissima è essere (sat); come consapevolezza autofondata è coscienza (cit); come gioia della completezza è beatitudine (ànanda). Il vero maestro (sadguru) è la scoperta dell'"Io sono Lui", mentre il molteplice, fuori e dentro di me, è solo apparenza. L'unica efficace disciplina (sadhana) è l'imperterrita contemplazione di Lui; qualsiasi altro sforzo gioverà solo per raggiungere lo sfinimento oltre il quale è il non-fare, il non-attendere i frutti dell'azione, il non-desiderare quello che già si ha essendo Lui, il non-dipendere dagli schiavi del tempo: il piacere come attesa e il dolore come ricordo.

Alla domanda: quando s'intona un mantra, che cosa realmente accade, Maharaj risponde: "Il suono crea la forma per accogliere il Sé". (Vedi)

Avvezzo come ogni indù a convertire le più vertiginose astrazioni in materia palpitante e concreta, ai suoi occhi il Sé è letteralmente più vicino del respiro, è il battito stesso del cuore - atman su, atman giù - ma sempre e solo qui-ora.

Che cos'è questo Arcano che lampeggia nei Veda, riemerge nel Vedanta, ritma gli inni, i dialoghi, i canti, gli introiti alla sapienza?

Il punto al centro del mandala, la "cella" ombelicale nel tempio, il battito del piede segnatempo, il ritmo ininterrotto del tamburo, la pupilla saettante e il dito puntato sul cuore della danzatrice irrigidita, tutti questi mezzi efficaci dell'arte rituale accennano all'Arcano Maggiore, mortificato dal nome che riceve in traduzione - trascritto minuscolo o maiuscolo -: sé, Sé, o nei linguaggi buddhisti: non-sé (anatman).

Da quali sconfinati abissi della memoria emerge nella sapienza indiana l'Arcano del Sé?

In un libro di grande valore, ingiustamente ignorato (8), Maryla Falk tentò lo scandaglio del mito psicologico nell'India antica, e quasi ne fu sopraffatta. Stasi dell'estasi osò definire la Falk il vertiginoso indiamento che largisce al meditante l'esperienza del Sé. Un'esperienza in cui "domina la coscienza dell'infinità, ... della cosmicità, e allo stesso tempo la coscienza dell'io, ma con un carattere di vastità smisurata che non conosce i limiti della coscienza quotidiana dell'"io" ".

Ed è lì, sullo scrimolo che distingue nella veglia la prima dalla terza persona, e nel sogno l'identità del sognatore rispetto al sognato, e nel sonno profondo, invece, li rimescola nella placenta dell'oblio, su quel lembo sottile di coscienza calcata dall'orma della persona, è il confine insidioso tra follia e sapienza, il discrimine che sconcerta i "sani" e trascina il folle nei suoi intontimenti orgiastici, nei cupi deliri, nelle malinconie di pietra. La fredda, pallida conversione dell'oniromante nel moderno analista è l'unico tentativo di ripristinare l'antica sequenza: l'io incatenato, il Sé rispecchiante, l'analista-specchio.

L'ultimo Jung, sfiorando il pensiero di Ramana Maharshi, fu conquistato da questa quarta dimensione dell'indiamento, pur riscontrandovi una sorta d'impareggiabile contraddizione: "... L'India è pre-psicologica. Quando cioè parla del "Sé", pone un "Sé". La psicologia non fa così. Non che neghi l'esistenza del conflitto drammatico, ma si riserva la povertà, o la ricchezza, d'ignorare il Sé. Ben conosciamo una peculiare e paradossale fenomenologia del Sé; ma siamo consci del fatto che percepiamo, con mezzi limitati, qualcosa di sconosciuto e lo esprimiamo in termini di strutture psichiche, di cui ignoriamo se siano o no conformi alla natura di ciò che dev'essere conosciuto " (9).

Jung non ha incontrato Maharaj. Se si fossero parlati, è quasi certo che il vecchio gli avrebbe chiesto: "Chi formula la domanda? E chi c'è dietro la persona che la formula?".

"In realtà non ci sono persone, ma fasci di memorie e abitudini..."; (Vedi)

"Il Supremo è un unico blocco compatto di realtà"; (Vedi)

"La condizione indisturbata dell'essere è la beatitudine. La condizione disturbata è ciò che appare come mondo. Nella non-dualità c'è la beatitudine; nella dualità, l'esperienza..."; (Vedi)

"La realtà è oltre la descrizione. La conosci solo se sei essa"; (Vedi)

"...Il mio silenzio canta, la mia pienezza è colma, non mi manca niente. Non puoi conoscere la mia terra finché non ci sei dentro". (Vedi)

E in quel dire il vecchio aduna una forza di gigante, come se dal piccolo corpo, accartocciato e corroso dagli anni, si levasse una lingua di fiamma o un brivido di energia che gli elettrizza lo sguardo.

"Non avete paura di morire?"
"Ti racconterò com'è morto il mio maestro. Dopo aver annunciato che la sua fine era prossima, smise di mangiare, senza modificare il ritmo della vita quotidiana. All'undicesimo giorno, nell'ora della preghiera, stava cantando e batteva vigorosamente le mani, all'improvviso morì, tra un battere e un levare, come una candela subito spenta". (Vedi)

Grazia Marchianò



Tratto da Io sono Quello
Rizzoli Editore - Milano 1981, 82
Introdotto, curato e tradotto da Grazia Marchianò
Riprodotto su autorizzazione

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