I.: La pratica dello yoga avviene sempre al livello della coscienza o anche al disotto?
M.: Per il principiante, l'esercizio è quasi sempre deliberato, ed esige una ferma volontà. Dopo molti anni di pratica, si diventa costantemente assorti nell'autorealizzazione, sia a livello di coscienza che al di sotto. La disciplina non-cosciente - il sadhana - è la più efficace, perché è salda e spontanea.
I.: E che dire del sincero praticante di yoga, che a un certo punto si scoraggia e abbandona tutti gli sforzi?
M.: Ciò che un uomo sembra fare o non fare è spesso ingannevole. La sua apparente letargia può essere semplicemente un raccogliere le forze. Le cause della nostra condotta sono molto sottili. Non bisogna affrettarsi a condannare, e neppure ad accusare(1). Ricorda che lo yoga è opera del sé interiore (vyakta) sul sé esterno (vyakti). Ciò che fa l'esterno non è che la risposta dell'interno.
I.: Eppure il sé esterno serve.
M.: Può tutt'al più esercitare un controllo sul corpo correggendo la sua posizione e il ritmo del respiro. Ma sui pensieri e i sentimenti può molto poco perché esso stesso è la mente. Solo il sé interno può controllare l'esterno, il quale avrà tanto buon senso da obbedire(2).
I.: Se il sé interno è in ultima analisi responsabile dello sviluppo spirituale dell'uomo, perché l'esterno è così pungolato?
M.: L'esterno giova se resta quieto e libero dal desiderio e dalla paura. Noterai che ogni ammonizione all'esterno è in forma negativa: non fare, smetti di..., astieniti, rinunzia, abbandona, sacrifica, scopri il falso. Persino la descrizione minima della realtà ricorre a una negazione: neti, neti ("non questo, non quello"). Tutti i positivi appartengono all'interiore; e tutti gli assoluti, alla realtà.
I.: Come si distingue in concreto l'interno dall'esterno?
M.: L'interno è la fonte dell'ispirazione, l'esterno è mosso dalla memoria. La fonte non è situabile, mentre la memoria comincia sempre da qualche parte. Perciò l'esterno è sempre determinato, laddove l'interno non è formulabile verbalmente. L'errore sta nell'immaginare che l'interno sia qualcosa che si afferra, dimenticando che tutti i percepibili sono transitori e perciò irreali. Solo ciò che rende possibile la percezione - chiamalo Vita, il Brahman, o come altro vuoi - è reale.
I.: Ma la vita, per esprimersi, non ha bisogno del corpo?
M.: Il corpo cerca di vivere. Non la vita ha bisogno del corpo; ma, viceversa, il corpo vuole la vita.
I.: La vita agisce di proposito?
M.: E l'amore? Direi, sì e no. La vita è amore e l'amore è vita. Ciò che tiene insieme il corpo non è forse l'amore? Che cos'è il desiderio se non amore di sé? O la paura se non il bisogno di proteggersi? O la conoscenza se non l'amore della verità? I modi e le forme possono essere errati, ma il motivo che sta dietro è sempre l'amore: amore dell'io e del mio(3). L'io e il mio possono essere minimi, o esplodere e inglobare l'universo: è amore comunque.
I.: In India è molto comune ripetere il nome di Dio. C'è virtù nel farlo?
M.: Trovi facilmente una cosa o una persona, se la conosci per nome. Nominando Dio fai sì che venga a te.
I.: In che modo viene a me?
M.: A seconda delle tue aspettative. Se capita che tu sia infelice e che un'anima santa ti dia una formula di buon auspicio, e tu la ripeta con fede e devozione, la tua cattiva fortuna si volgerà in buona. Una fede salda è più forte del destino. Il destino è il risultato di cause per lo più accidentali, perciò le sue maglie sono larghe. Con la fiducia e la buona speranza ne avrai ragione facilmente.
I.: Quando s'intona un mantra, che succede effettivamente?
M.: Il suono crea la forma che incorpora il Sé. Il Sé può incorporare qualsiasi forma: e operare attraverso. Dopotutto il Sé esprime se stesso in azione: e un mantra è sostanzialmente energia in azione. Agisce su di te, e sull'ambiente.
I.: Il mantra deve essere tradizionale?
M.: Da tempi immemorabili fu stabilito un legame tra certe parole e le corrispondenti energie, e le infinite ripetizioni lo hanno rafforzato. È come una strada su cui t'incammini. È agevole: basta la fede. Dài fiducia alla strada, e ti porterà a destinazione.
I.: In Europa manca una tradizione mantrica, fuorché in qualche ordine contemplativo. A che serve il mantra all'occidentale moderno?
M.: A niente, a meno che non ne sia fortemente attratto. Il giusto metodo, per lui, sarà di persuadersi di essere egli stesso la base di ogni conoscenza, l'immutabile consapevolezza di tutto ciò che accade ai sensi e alla mente. Costantemente consapevole e all'erta, per forza riuscirà a spezzare i lacci della non-consapevolezza e nascerà alla pura vita, alla luce e all'amore. L'idea "io-sono-solo-il-testimone" purificherà il corpo e la mente, e schiuderà l'occhio della sapienza. L'uomo a quel punto scavalca l'illusione, e il suo cuore è svuotato di desiderio. Come il ghiaccio si fa acqua e questa vapore, che dilegua nell'aria, così il corpo si discioglie nella pura consapevolezza (chidakash), e quindi in puro essere (paramakash), al di là dell'essere e del non-essere.
I.: Il realizzato mangia, beve e dorme come un uomo qualunque. Perché?
M.: Lo stesso potere che muove l'universo, muove anche lui.
I.: Questo vale per tutti. Qual è la differenza per il realizzato?
M.: È un uomo che sa quello che gli altri sentono dire senza provarlo da se stessi. In teoria paiono persuasi, in pratica mostrano di non essere svincolati. Il realizzato, invece, è come dev'essere.
I.: Tutti dicono "io sono", anche il realizzato.
M.: La differenza sta nel significato attribuito all'"io sono". Per il realizzato, "io sono il mondo, il mondo è mio", è un'esperienza piena e valida, perché egli pensa, sente e agisce in comunione con tutto ciò che è vivo(4). Può darsi che non conosca la teoria e la pratica dell'autorealizzazione, e che non intercetti nozioni metafisiche o religiose. Tuttavia non ci sarà la minima incrinatura nella sua comprensione e compassione.
I.: Supponiamo che incontri un mendico, nudo e affamato, e gli domandi chi sia. E lui risponda: "Sono il Sé Supremo". E io di rimando: "Se davvero sei il Supremo, prova a cambiare lo stato in cui ti trovi". Come credete che mi risponderà?
M.: Ti domanderà: "Di quale stato parli? Che cosa ha bisogno di cambiare? Che cosa non va in me(5)?".
I.: Perché dovrebbe rispondere così?
M.: Perché non è più legato alle apparenze, e non s'identifica col nome e la forma. Usa la memoria ma la memoria non usa lui.
I.: La conoscenza non è tutta fondata sulla memoria?
M.: Quella di qualità inferiore, sì. Ma la conoscenza della Realtà appartiene alla vera natura dell'uomo.
I.: Non sono quello di cui ho coscienza, né sono la stessa coscienza, è così?
M.: Finché sei nello stadio della ricerca, è meglio che ti aggrappi all'idea di essere pura coscienza senza contenuti. Trascendere la coscienza è lo stato supremo.
I.: Il desiderio della realizzazione spunta nella coscienza o ha radici al di là?
M.: Nella coscienza, visto che è la sede dei desideri, i quali nascono dalla memoria. Lo sforzo e la fatica valgono solo fin lì. E anche il desiderio di trascendere la coscienza è ovviamente impiantato nella coscienza.
I.: Di questo "oltre" esiste una traccia, una minima impronta?
M.: No, è impossibile.
I.: Allora qual è il rapporto tra le due dimensioni? Può esserci un passaggio da uno stato a un altro senza che abbiano qualcosa in comune? E il legame tra i due non è forse la pura consapevolezza?
M.: Anche la pura consapevolezza è un aspetto della coscienza.
I.: Allora che cosa c'è oltre? Il vuoto?
M.: Anche il vuoto riguarda la coscienza. Pienezza e vacuità sono termini relativi. Il Reale è realmente al di là: non rispetto alla coscienza, ma a tutti i rapporti possibili. La difficoltà sta nell'uso del termine "stato" o "dimensione". Il Reale non è lo stato di qualcos'altro: della mente, della coscienza o della psiche; né è qualcosa che ha un inizio e una fine, un essere e un nonessere. Tutti gli opposti vi sono contenuti, benché non consista in un gioco tra gli opposti. Né devi pensare che sia la fine di una transizione. È se stesso, dopo che la coscienza è venuta meno. A quel punto espressioni come "Sono un uomo" o "Sono Dio" non hanno più senso. Solo nel silenzio puoi udirlo e nell'oscurità vederlo(6).