57. 11 Maggio 1971




I.: Vi vedo seduto qui, in attesa che il pasto sia servito, e mi domando se i vostri contenuti di coscienza siano simili ai miei o no, in parte o totalmente. Provate fame e sete come me, attendete con impazienza di mangiare, o sìete assorto in tutt'altro?
M.: Alla superficie la differenza è minima, in profondità è molto maggiore. Conosci te stesso solo attraverso i sensi e la mente. Sei quello che essi ti fanno essere; privo di conoscenza diretta di ciò che sei, hai al riguardo delle pure idee, mediate e di seconda mano. Qualunque cosa pensi di essere, la prendi per vera, e tendi a crederti descrivibile come un essere di percezione. Io vedo, ascolto, gusto e mangio quanto te, ho fame e sete e mi aspetto di ricevere il cibo puntualmente; se sono spossato o ammalato, il corpo e la mente sono deboli. Percepisco tutto ciò con chiarezza ma in un certo senso sono estraneo, è come se fluttuassi al di sopra, in disparte e distaccato(1). E nemmeno così, perché il distacco è in me come la sete e la fame; c'è la consapevolezza di tutto, e insieme il senso di un'immensa distanza, come se il corpo, la mente, e le cose che ad essi accadono, fossero all'orizzonte da qualche parte lontano. Sono come uno schermo - terso e vuoto - su cui le immagini trascorrono senza lasciare traccia. Le immagini non alterano lo schermo, così come non ne sono influenzate. Lo schermo intercetta e rispecchia le immagini, non le produce. Non ha niente a che fare con le pellicole dei film, che sono quello che sono, pezzi di destino, ma non del mio: i destini dei personaggi sullo schermo.
I.: Non vorrete dire che i personaggi di un film hanno un destino! Appartengono a una storia che non è la loro!
M.: E che c'è di diverso in te? Sei tu che modelli la tua vita o è la vita che ti modella?
I.: È vero. La storia della vita si svolge, e io sono uno degli attori. Non esisto fuori di essa, così come la storia non esiste al di fuori di me.
M.: Il personaggio diventa una persona quando comincia a dar forma alla sua vita, invece di accettarla come viene e identificarvisi.
I.: Quando pongo una domanda e voi rispondete, che cosa accade esattamente?
M.: La domanda e la risposta - tutt'e due - appaiono sullo schermo. Si muovono le labbra, parla il corpo: e lo schermo è di nuovo terso e vuoto.
I.: Che intendete per terso e vuoto?
M.: Libero da ogni contenuto. Non c'è nulla in me che possa additare, e dire "Io sono". Non sono soggetto alla percezione né alla concettualizzazione. Per te l'identificazione è continua, per me è impossibile. La sensazione "Non sono né questo né quello, e niente è mio" è in me così forte che, non appena un oggetto o un pensiero si profilano, l'immediata controsensazione è "Questo non sono io".
I.: Allora passate il tempo a ripetere "Non sono questo, non sono quello"?
M.: Certo che no. Se lo esprimo in parole, è a tuo beneficio. La grazia del maestro mi concesse una volta per tutte di capire che non sono né l'oggetto né il soggetto, e non ho bisogno di ricordarmelo tutte le volte.
I.: Non capisco. In questo momento, mentre parliamo, non sono forse io l'oggetto della vostra esperienza e voi il soggetto?
M.: Guarda qui. Il mio pollice tocca l'indice, ambedue toccano e sono toccati. Se pongo mente al pollice, il soggetto della percezione è lui, e l'indice è il sé. Basta spostare il fuoco dell'attenzione e il rapporto è invertito. Diciamo che via via che dirigo l'attenzione, divento quello che guardo, e ne assumo la coscienza. Divento l'interno testimone di ciò che guardo(2). Questa capacità di penetrare punti focali di coscienza diversi dal mio, la chiamo "amore", ma puoi definirla come ti piace. L'amore dice: "Sono tutto". La saggezza dice: "Non sono niente". La mia vita scorre tra l'uno e l'altra. Poiché in ogni punto dello spazio e del tempo posso essere il soggetto e l'oggetto dell'esperienza, lo esprimo dicendo che io sono l'uno e l'altro, né l'uno né l'altro, e al di là di entrambi.
I.: È davvero strabiliante! Siete oltre lo spazio e il tempo: che significa?
M.: Tu domandi e la risposta viene. Osservo me e la risposta, e non vedo contraddizioni. Sto dicendo la pura verità. È così semplice! Devi solo credere a ciò che dico e accettarlo come una cosa seria. Te l'ho già raccontato, il maestro mi mostrò la mia vera natura, e la vera natura del mondo. Quando capii di essere tutt'uno con esso, ma anche al di là, fui libero dal desiderio e dalla paura. Se avessi detto "devo" essere libero, ne avrei fatto un ragionamento. Invece, inaspettatamente, senza sforzo, fui libero(3). Questa libertà dal desiderio e dalla paura si è da allora radicata in me(4). Notai poi un'altra cosa: che non dovevo più sforzarmi, l'azione seguiva naturalmente il pensiero, senza ritardo o attrito. Notai inoltre che i pensieri si realizzavano da soli(5), le cose cadevano al loro posto dolcemente e correttamente. Il cambiamento principale fu nella mente: divenne immobile e silenziosa, svelta alla replica, senza indugiare sulla risposta. La spontaneità crebbe, il reale diventò naturale e il naturale reale. E soprattutto si sviluppò un'infinita simpatia, un amore calmo e sconfinato, capace di rendere ogni cosa bella e interessante, colma di significato e fausta.
I.: Si dice che i poteri dello yoga si sviluppino naturalmente in un uomo che abbia attuato in pieno il suo essere. Qual è stata la vostra esperienza?
M.: Il quintuplice corpo dell'uomo, a partire da quello fisico, ha poteri virtuali al di là dei nostri sogni più spericolati. L'uomo è lo specchio dell'universo, e i poteri per controllarlo sono ancora tutti da usare. Il saggio vi ricorre solo quando è necessario. La comune capacità e competenza gli bastano per la vita quotidiana. Alcuni poteri straordinari si possono sviluppare con un addestramento speciale, ma l'uomo che li ostenta, è ancora in catene. Il saggio non conta su nulla come suo. Se corre voce di un miracolo attribuito a qualcuno, lo esamina in sé e per sé, e rifiuterà di trarre conclusioni. Tutto accade come accade perché doveva accadere, e tutto accade come accade perché l'universo è quello che è.
I.: L'universo non sembra un posto felice. Perché c'è tanta sofferenza?
M.: Il dolore è del corpo, la sofferenza è mentale. Oltre la mente, non c'è sofferenza. Il dolore è un segnale che il corpo è in pericolo, e invoca attenzione. In modo analogo, la sofferenza ci avvisa che il grappolo di memorie e abitudini che è la persona (vyakti), è minacciata da una perdita o un cambiamento. Il dolore è essenziale alla sopravvivenza del corpo, ma nessuno ci obbliga a soffrire. La sofferenza dipende unicamente da un attaccamento o una resistenza, è il segno della nostra ritrosia a muoverci, a fluire con la vita.
Come una vita sana è libera dal dolore, così una vita santificata è libera dalla sofferenza(6).
I.: Nessuno ha sofferto più dei santi.
M.: Te l'hanno detto loro o lo dici tu? L'essenza della santità è una totale accettazione del presente, un armonioso adattarsi a ciò che accade. Il santo non vuole che le cose siano diverse da come sono(7), sa che, tutto considerato, sono inevitabili. È amico dell'inevitabile e perciò non soffre. Percepisce il dolore, ma non ne è sconvolto(8). Semmai fa il possibile per ristabilire l'equilibrio perduto, o lascia che le cose abbiano il loro corso.
I.: Ma muore.
M.: E con ciò? Che cosa guadagna vivendo e quanto perde morendo? Ciò che è nato deve morire; ciò che non è mai nato, non può morire. Tutto dipende da quello che egli decide di essere.
I.: Immaginate di ammalarvi mortalmente: ne soffrireste?
M.: Ma io sono già morto; o meglio, né vivo né morto. Vedi il mio corpo comportarsi con naturalezza e trai le tue conclusioni. Ammetterai che riguardano te soltanto. Esamina piuttosto se l'immagine che hai di me non sia completamente sbagliata. Anche l'immagine che hai di te lo è, ma quello è affar tuo. Tu crei il problema, e chiedi a me di risolverlo. Io non creo problemi e non li risolvo.



Tratto da Io sono Quello
Rizzoli Editore - Milano 1981, 82
Introdotto, curato e tradotto da Grazia Marchianò
Riprodotto su autorizzazione

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