29. 26 Settembre 1970




I.: Che significa fallire nello yoga? E chi fallisce?
M.: È solo una questione d'incompletezza. Chi per qualche motivo non riuscisse a terminare il suo yoga, si definisce mancato. Ma è un fatto temporaneo. perché lo yoga non conosce disfatta. È una battaglia sempre vinta, perché si scontrano il vero e il falso, e il falso non ha probabilità d'imporsi(1).
I.: Ma chi fallisce? La persona (vyakti) o il sé (vyakta)?
M.: La domanda è mal posta. Non c'è fallimento né successo, e non è una questione di tempo. È come percorrere una strada lunga e impervia verso un'ignota destinazione, Di tutti i passi solo l'ultimo ti fa giungere, ma non per questo ritieni che i passi precedenti siano mancati. In realtà ogni passo ti conduce allo scopo, perché essere perennemente in cammino, imparare, scoprire, svelare è il tuo destino. Vivere è l'unico scopo dell'esistenza(2). Il sé non s'identifica col successo e la sconfitta; l'idea stessa di diventare questo o quello, gli è estranea. Il sé sa che la riuscita e la sconfitta sono relative e in rapporto reciproco, l'ordito e la trama nel tessuto della vita. Impara da ambedue, e va' oltre. Se non hai imparato, ripeti.
I.: Che cosa dovrei imparare?
M.: A vivere senza interesse per te stesso. Ma per questo devi conoscere il tuo vero essere (swarupa) come indomito e sempre vittorioso. Quando sei assolutamente certo che niente può affliggerti fuorché la tua immaginazione, trascuri i desideri e le paure, i concetti e le idee, e vivi solo per la libertà.
I.: Qual è il motivo per cui alcuni riescono e altri falliscono nello yoga? È per destino, per naturale inclinazione, o per le circostanze?
M.: Nessuno fallisce sempre. Tutto dipende dalla velocità del progresso. Lento all'inizio, rapido alla fine. Quando si è proprio maturi, la realizzazione è esplosiva. Accade naturalmente o alla minima spinta. Il veloce non è migliore del lento. Una lenta crescita si alterna a una rapida fioritura. Tutte e due sono giuste e naturali. Eppure tutto questo è solo nella mente. Per me non c'è niente del genere. Nel grande specchio della coscienza le immagini appaiono e scompaiono, e solo la memoria dà loro una continuità. E la memoria è materiale - deperibile e transitoria -. Su basi così friabili, costruiamo il senso di un'esistenza personale, intermittente, onirica. Il vago convincimento: "Sono così e così", oscura la consapevolezza, e ci fa credere che siamo nati per soffrire e morire.
I.: Come un bambino non può evitare di crescere, così l'uomo è costretto per natura a progredire. Perché allenarsi? Che bisogno c'è dello yoga?
M.: Il progresso è continuo. Tutto vi contribuisce, ma è il progredire dell'ignoranza. I cerchi dell'ignoranza possono dilatarsi, ma la schiavitù rimane. Quando viene il tempo, compare il maestro, che c'ispira a praticare lo yoga, e fomenta quella maturazione che saprà dissolvere la tenebra dell'ignoranza. In realtà niente è accaduto. Il sole è sempre lì, non conosce notte: accecata dall'idea "io-sono-il-corpo", la mente tesse il filo dell'illusione.
I.: Se tutto è parte di un processo naturale, perché sforzarsi?
M.: Anche lo sforzo è parte del processo. Quando l'ignoranza diventa ostinata e il carattere si pervertisce, la fatica e la pena sono inevitabili. In una resa completa alla natura, non c'è sforzo. Il seme della vita spirituale cresce nel silenzio e nell'ombra fino all'ora destinata(3).
I.: Alcuni grandi uomini in tarda età diventano infantili, meschini e dispettosi. Come si spiega tanto deterioramento?
M.: Non erano yoghi compiuti, con un pieno controllo del corpo, oppure non hanno badato a difendere il loro fisico dal declino naturale. Non si devono trarre conclusioni senza comprendere tutti i fattori. E soprattutto non si deve giudicare nei termini di superiore e inferiore. L'esser giovani è più una questione di energia (prana) che di saggezza (gnana).
I.: Invecchiare è naturale, ma perché si perdono la vigilanza e il discernimento?
M.: La coscienza e l'incoscienza sono del corpo, e dipendono dallo stato del cervello. Ma il sé è al di là di ambedue, della mente e del cervello. L'errore dello strumento non ricade su chi lo usa.
I.: Si dice che il realizzato non farà mai niente di improprio. Si comporterà sempre in maniera esemplare.
M.: Chi pone l'esempio? Perché un liberato dovrebbe seguire per forza le convenzioni? Appena diventa prevedibile, non è più libero. La sua libertà sta nell'essere libero di soddisfare il bisogno del momento, e obbedire alla necessità della situazione. La libertà di fare ciò che piace è la vera schiavitù; se fai ciò che devi, e che è giusto, sei libero davvero.
I.: Eppure, dev'esserci un modo per riconoscere un realizzato da chi non lo è. E se poi non si distingue dall'uomo comune, a che prò realizzarsi?
M.: Chi conosce se stesso, non ha dubbi su questo fatto, e non gl'importa se gli altri lo riconoscano o no. Raro è il realizzato che si palesa per tale, e fortunati sono quelli che lo hanno incontrato, perché ciò sarà avvenuto per il loro bene.
I.: Se ci si guarda intorno, si è colpiti dalla quantità di sofferenza inutile che si rinnova di continuo. Immaginate una corsia d'ospedale stipata d'incurabili che tossono e gemono. Se aveste l'autorità di sopprimerli e metter fine alle loro torture, non lo fareste?
M.: Lascerei a loro di decidere.
I.: Ma se il loro destino è di soffrire, perché non è opportuno impedirglielo?
M.: Il loro destino è ciò che accade(4). Non esiste un'avversità del destino. O credi che la vita di ognuno sia totalmente determinata alla nascita? È un'idea bislacca. Se così fosse, il potere che la determina farebbe in modo che nessuno soffra.
I.: Che pensate della causa-effetto?
M.: Ogni momento contiene tutto il passato e crea tutto il futuro(5).
I.: Ma il passato e il futuro esistono?
M.: Nella mente. Il tempo e lo spazio sono mentali(6). Anche la legge di causa-effetto è un modo di pensare. In realtà tutto è qui e ora, unico(7). La molteplicità e la differenza sono solo nella mente(8).
I.: Eppure siete a favore del sollievo della sofferenza, anche se comporta la soppressione di un corpo incurabile?
M.: Continui a guardare da fuori. Io che guardo da dentro, non vedo sofferenti; il sofferente sono io. Lo conosco dall'interno e, spontaneamente e senza sforzo, faccio il dovuto. Non seguo regole, non ho criteri prestabiliti. Scorro con la vita: fiduciosamente e senza resistenze.
I.: Apparite un uomo pratico e ben piantato dove sta.
M.: E che altro ti aspetti? Che sia uno spostato?
I.: Però non siete in grado di aiutare qualcuno più di tanto.
M.: Sì, invece. Anche tu. Ognuno può. Ma la sofferenza si ricrea di continuo, e l'uomo è l'unico a poter estirpare le radici del male dentro di sé. Dall'esterno si può agire sul dolore, non sulla causa, che è l'abissale stupidità del genere umano.
I.: Potrà mai cessare?
M.: Nell'uomo: sì, in ogni momento. Nell'umanità, come la conosciamo: solo fra molto tempo. Nella creazione: mai, perché essa è intrinsecamente fondata sull'ignoranza. Non sapere e ignorare che non si sa, è la causa di una sofferenza senza fondo.
I.: Si parla dei grandi Incarnati, i salvatori del mondo.
M.: Hanno mai salvato? Sono venuti e sono andati: e il mondo arranca. Hanno fatto molto -non lo nego- e dischiuso alla mente nuove dimensioni. Ma quanto a salvare il mondo, è un'esagerazione.
I.: Allora il mondo non si salva?
M.: Quale mondo vorresti salvare? Se è quello della tua proiezione, salvalo da te. Se è il mio, mostramelo, e me ne occuperò. Non sono consapevole di un mondo che mi sia separato, e che io sia libero di salvare o no. Perché ti preoccupi di salvare il mondo, quando l'unica cosa che occorra al mondo è salvarsi da te? Esci dalla scena e guarda: è rimasto qualcosa da salvare?
I.: Dite che senza di voi il mondo non esisterebbe, sicché l'unico contributo fattivo è sospendere lo spettacolo. Ma non è una soluzione. Anche se il mondo fosse fatto da me, saperlo non lo salverebbe. Resta la domanda: perché ho fatto questo mondo mostruoso, e come posso cambiarlo? Voi sembrate esortare: "Dimenticalo, e ammirati in tutta la tua gloria", ma sono certo che intendete qualcos'altro. Descrivere la malattia e le sue cause, non la elimina. Ci vuole la medicina giusta.
M.: La descrizione e il rapporto di causa-effetto sono la cura per una malattia prodotta dalla stupidità. Come un'insufficienza si cura somministrando l'elemento che manca, così le malattie dell'esistenza si curano con una buona dose di avveduto distacco(9) (viveka vairagya).
I.: Non salvate il mondo dispensando consigli di perfezione. Gli uomini sono come sono. Devono soffrire?
M.: Finché sono come sono, non c'è scampo alla sofferenza. Rimuovi il senso della separazione, e il conflitto scomparirà.
I.: Un foglio di carta scritto, non è che carta e inchiostro. Quello che conta è il testo. Se analizziamo il mondo nei suoi elementi e qualità, perdiamo la cosa essenziale: il significato. Il vostro ridurre tutto a sogno non considera la differenza tra il sogno di un insetto e quello di un poeta. Tutto è sogno, d'accordo. Ma non tutti i sogni sono eguali.
M.: I sogni no, ma il sognatore sì. Nel sogno sono l'insetto e il poeta. Ma nella realtà, nessuno dei due. Sono al di là di tutti i sogni, la luce in cui tutti i sogni sorgono e tramontano. Sono fuori e dentro al sogno. Come un uomo col mal di testa, conosce il male ma sa anche di non essere quel male, così io conosco il sogno, e me che sogno e non sogno - allo stesso tempo -. Sono ciò che sono, prima, durante e dopo il sogno. Ma non sono quello che vedo nel sogno.
I.: S'immagina di sognare come di non sognare. È lo stesso?
M.: Sì e no. Il non sognare come intervallo tra due sogni è, ovviamente, parte del sogno. Non sognare nel senso di essere solidamente piantati nella realtà, non ha niente in comune col sogno. In questo senso non sogno e non sognerò mai.
I.: Se il sogno e l'evasione dal sogno sono immaginari, qual è la via d'uscita?
M.: Non c'è bisogno di vie d'uscita! La stessa idea di sottrarsi al sogno è illusoria. Perché andare per forza da una parte? Basta che tu veda che stai sognando un sogno che chiami il mondo, e che devi smettere di cercare vie d'uscita. Il tuo problema non è il sogno, ma il fatto che ne ami una parte e non l'altra. Amale tutte o nessuna, e smetti di lagnarti. Quando avrai visto il sogno come sogno, avrai fatto tutto il necessario.
I.: Il sognare dipende dal pensare?
M.: È tutto un gioco d'idee. Nello stato di non-ideazione (nirvikalpa samadhi), non c'è percezione. L'idea di fondo è "io sono". Essa scuote lo stato di pura coscienza, ed è seguita da innumerevoli sensazioni e percezioni, sentimenti e idee che nella loro totalità costituiscono Dio e il suo mondo. L'"io sono" resta il testimonio, ma tutto accade per volontà di Dio(10).
I.: Perché non per la mia?
M.: Di nuovo ti dividi in Dio e testimone. I due sono tutt'uno.



Tratto da Io sono Quello
Rizzoli Editore - Milano 1981, 82
Introdotto, curato e tradotto da Grazia Marchianò
Riprodotto su autorizzazione

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