25. 29 Agosto 1970




I.: Siete sempre lieto o talvolta triste? Conoscete la gioia e il dolore?
M.: Comunque le chiami, per me sono condizioni della mente, e io non sono la mente.
I.: L'amore è uno stato mentale?
M.: Anche in questo caso, dipende da ciò che intendi per amore. Il desiderio è senz'altro uno stato mentale. Ma il coglimento dell'unità trascende in pieno la mente. Per me, niente esiste di per sé. Tutto è il Sé, tutto è me. Vedere me stesso in ognuno e ognuno in me stesso è certamente amore.
I.: Quando vedo una cosa piacevole, la desidero. Ma chi davvero desidera? Il Sé o la mente?
M.: La questione è mal posta. Non c'è un "chi". Ci sono desiderio, paura, rabbia, e la mente dice: "questo è me, è mio". Non c'è niente, in realtà che sia "me" o "mio". Il desiderio è uno stato percepito e formulato dalla mente. Senza una mente percipiente e nominante, dov'è il desiderio?
I.: Si può percepire qualcosa senza nominarla?
M.: Certo. Il nominare non può essere oltre la mente, mentre il percepire è la coscienza stessa.
I.: Quando un uomo muore, che cosa accade esattamente?
M.: Niente. Qualcosa diventa niente. Niente era, niente resta(1).
I.: Ma c'è una differenza tra un vivo e un morto. Voi ne parlate al rovescio, come se il vivo fosse morto, e il morto, vivo.
M.: Perché te la prendi tanto per un uomo che muore, e non badi ai milioni che muoiono ogni giorno? Universi su universi implodono ed esplodono ogni momento: devo piangere su di essi? Una cosa mi è chiara: tutto ciò che è, vive e si svolge radicato nella coscienza, e io sono dentro e al di là: dentro, come testimone, e al di là, come puro essere.
I.: Non dubito che vi preoccupate se vostro figlio è ammalato.
M.: Non ne sono sconvolto. Mi limito a fare il necessario. Non penso al futuro. Mi viene spontaneo dare la giusta risposta ad ogni situazione. Non mi fermo a pensare al da farsi. Agisco e scorro con l'azione. I risultati, buoni o cattivi che siano, non mi toccano. Sono quel che sono. Se si ripresentano, li riaffronto come nuovi. O piuttosto, nel riaffrontarli, mi sento nuovo. Non c'è senso di scopo in nessuno dei miei atti. Le cose accadono non perché sia io a farle accadere, piuttosto è perché io sono, che esse accadono. In realtà, niente accade davvero. La mente, quando è inquieta, induce Shiva a danzare, così come le onde increspate del lago fanno danzare la luna. Tutto è una parvenza, dovuta a idee errate(2).
I.: Però vi accorgete della diversità tra una cosa e l'altra, e vi regolate in conseguenza. Trattate il bambino da bambino e l'adulto da adulto.
M.: Come il sapore di sale pervade l'oceano e ogni singola goccia è salata, così ogni esperienza mi dà un assaggio della realtà, la scoperta sempre fragrante del mio vero essere.
I.: Esisto nel vostro mondo come voi nel mio?
M.: Tu e io siamo due punti nella coscienza, nient'altro che quello. Bisogna afferrarlo bene: il mondo è saldato alla coscienza con un filo; senza la coscienza, non c'è il mondo.
I.: I punti nella coscienza sono molti, e i mondi sono altrettanti?
M.: Considera ad esempio il sogno. All'ospedale ci sono molti pazienti, tutti dormono, ognuno sogna il suo sogno privato, senza rapporto con quello dell'altro, senza esserne influenzato, con un solo fattore in comune: la malattia. In modo analogo, con l'immaginazione ci siamo separati dal mondo reale dell'esperienza comune a tutti, e ci siamo racchiusi in un bozzolo di desideri e paure, immagini e pensieri, idee e concetti, strettamente personali.
I.: D'accordo. Ma qual è la causa di questa immensa diversificazione di mondi personali?
M.: Non è così grande. Alla base di tutti i sogni c'è un mondo in comune. E fino a un certo grado, si modellano e influenzano l'un l'altro. Alla radice c'è un fattore costante: l'oblio di sé, il non sapere chi si è.
I.: Per dimenticare, bisogna sapere. Sapevo chi ero, prima di dimenticarlo?
M.: Certamente. L'oblio è inerente alla conoscenza di sé. Coscienza e non-coscienza sono i due aspetti coesistenti di un'unica vita. Per conoscere il mondo, dimentichi il sé; per conoscere il sé, dimentichi il mondo. E che cos'è il mondo, dopotutto? Un cumulo di memorie. Vedi di attaccarti a una sola cosa(3), fissati sull'"io sono", e abbandona il resto. Questo è il sadhana, l'efficace disciplina: comprendere che non c'è niente cui attaccarsi, e niente da dimenticare.
I.: Qual è la causa dell'oblio?
M.: Non c'è causa, perché non c'è oblio. Gli stati mentali si avvicendano e ognuno oblitera il precedente. Il ricordo di sé è uno stato mentale quanto l'oblio. Si alternano come il giorno e la notte. La realtà è al di là di ambedue.
I.: Dev'esserci certo una differenza tra oblio e ignoranza. Il non sapere non ha bisogno di causa. L'oblio presuppone una conoscenza anteriore, e anche la tendenza o la capacità di dimenticare. Non posso ricostruire le ragioni dell'ignoranza, ma se si dimentica, dev'esserci una ragione.
M.: Non c'è il non-sapere, c'è solo il dimenticare. E che male c'è nel dimenticare? È altrettanto semplice dimenticare che ricordare.
I.: L'oblio di sé non è una sventura?
M.: Non è peggiore del ricordarsi di sé ad ogni momento. Ma c'è uno stato al di là del dimenticare e del non-dimenticare: lo stato naturale. Ricordare, dimenticare, sono condizioni della mente, legate al pensiero e alla parola. Ad esempio, l'idea di essere nati. Mi è stato detto. Non lo ricordo. E mi si dice che morirò. Non me l'aspetto. Tu mi dici che ho dimenticato o che non ho immaginazione. Il fatto è che non posso ricordare quello che non è mai accaduto, né attendermi ciò che è palesemente impossibile. I corpi vanno e vengono nella coscienza e la coscienza ha radici in me. Io sono la vita, e miei sono il corpo e la mente.
I.: Dite che alla radice del mondo c'è l'oblio di sé. E che per dimenticare, devo ricordare. Ma che cosa ho dimenticato di ricordare? Che sono, me lo ricordo.
M.: Anche l'"io sono" può appartenere all'illusione.
I.: E come? Non potete provarmi che non sono. Anche se sono convinto di non essere, sono.
M.: La realtà non può essere né provata né smentita. Dentro la mente, non puoi farlo, e oltre la mente, non ti serve. Nel reale, la domanda "che cos'è reale", non si pone. Il manifesto (saguna) e il non-manifesto (nirguna) non sono diversi.
I.: Allora tutto è reale.
M.: Io sono tutto. Tutto è reale quanto me; e senza di me, niente lo è.
I.: Non credo che il mondo sia il risultato di un errore.
M.: Puoi affermarlo solo dopo un'attenta indagine, non prima. È ovvio che, se hai discriminazione, e lasci cadere tutto ciò che è irreale, ciò che resta è il reale.
I.: Ma resta qualcosa?
M.: L'ho già detto: il reale. Però le parole ingannano!
I.: Da tempo immemorabile e attraverso innumerevoli nascite, edifico, miglioro e abbellisco il mio mondo. Non è né perfetto, né irreale. È un processo.
M.: Ti sbagli. Il mondo non esiste fuori di te. Ad ogni momento, non fa che rifletterti. Tu lo crei, e tu lo distruggi.
I.: E lo ricostruisco, migliorato.
M.: Per migliorarlo, devi renderlo peggiore. Per vivere, devi morire. Non c'è rinascita se non attraverso la morte.
I.: Il vostro può essere un universo perfetto. Il mio è in via di miglioramento.
M.: Il tuo universo personale non esiste di per sé. È solo una prospettiva limitata e distorta del reale. Non è l'universo, che deve migliorare, ma il tuo modo di guardarlo.
I.: Voi, come lo vedete?
M.: È un palcoscenico su cui si recita il dramma del mondo. Quello che conta è la qualità dello spettacolo: non "che cosa" fanno e dicono gli attori, ma "come(4) ".
I.: Questo paragone con lo spettacolo, il cosiddetto lila, mi piace poco. Piuttosto, paragonerei il mondo a un cantiere, e gli uomini ai costruttori.
M.: Lo prendi troppo sul serio. Che cosa non va con l'idea di spettacolo? Hai uno scopo finché non sei completo (purna); prima di allora, completezza e perfezione sono lo scopo. Ma quando sei completo in te stesso, pienamente integrato all'interno e all'esterno, allora godi dell'universo, e non ti esautori. A chi non è integrato puoi apparire eccessivamente attivo, ma è un suo abbaglio. Gli atleti sembra che facciano sforzi immensi, eppure la loro unica motivazione è fare e disfare il gioco.
I.: Volete dire che anche Dio gioca, e agisce senza scopo?
M.: Dio non è solo il vero e il bene, è anche il bello (satyam-shivam-sundaram). Crea la bellezza: per pura gioia.
I.: Dunque ha lo scopo della bellezza!
M.: Che cos'è bello? Tutto ciò che sia percepito in beatitudine è bello(5). La beatitudine è l'essenza della bellezza.
I.: Parlate del Sat-Chit-Ananda. Provo a esaminare i tre termini uno per uno. L'Essere è ovvio; infatti: io sono. Anche la coscienza è tacita: so di essere. Ma la beatitudine è tutt'altro che ovvia: dov'è svanita la mia felicità?
M.: Sii consapevole di ciò che sei, e sarai coscientemente felice(6). Se non lo sei, è perché volgi la mente su ciò che non sei(7).
I.: Nel mondo ci sono due vie: la via dello sforzo (yoga marga) e quella del godimento (bhoga marga). Tutte due portano alla liberazione.
M.: Perché le chiami "vie", e come può il godimento portare alla perfezione?
I.: Sia lo yogi che il bhogi trovano la realtà, l'uno attraverso la perfetta rinuncia, l'altro attraverso il perfetto godimento.
M.: E com'è possibile? Non sono metodi contraddittori?
I.: Gli estremi si toccano. Essere un bhogi perfetto è altrettanto arduo che essere uno yogi perfetto.
Non mi sento di azzardare giudizi. Ma direi che sia lo yogi sia il bhogi tendono a realizzare la felicità. Lo yogi la concepisce costante, mentre il bhogi è pago dell'intermittenza; eppure a volte si sforza più dello yogi.
M.: A che ti vale una felicità per la quale devi lottare? La vera felicità è spontanea e senza sforzo.
I.: Ogni essere aspira alla felicità. Solo i mezzi cambiano. C'è chi la cerca dentro, e si chiama yogi; e chi la cerca fuori, ed è biasimato per essere un bhogi. Tuttavia hanno bisogno l'uno dell'altro.
M.: Il piacere e il dolore si alternano. La felicità è incrollabile. Quello che puoi cercare e trovare, non è il reale(8). Trova ciò che non hai mai perduto, l'inalienabile.



Tratto da Io sono Quello
Rizzoli Editore - Milano 1981, 82
Introdotto, curato e tradotto da Grazia Marchianò
Riprodotto su autorizzazione

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