Critiche

In questa pagina raccolgo le voci che in qualche modo dissentono dai temi presentati in questo sito e le mie osservazioni in proposito. Invito fin d'ora chi non è d'accordo su qualcosa a scrivere. La risposta è garantita, anche se non immediata...
Grazie.


- 1 +. Mail ricevuta il 15.1.2000

Oggetto: Riflessione

Identificare Dio in noi è un grande errore, perchè porta alla superbia di Lucifero.
Somigliamo a Dio solo quando amiamo.

Chiedo umilmente rispetto per l'esperienza dei mistici autentici.
Grazie.

Osservazioni

Bisogna ammettere che è facile leggere le forti affermazioni di unità di Eckhart, Maharaj e tanti altri come empie affermazioni di un 'io' ipertrofico (Lucifero, appunto) cui contrapporre le manifestazioni di umiltà dei 'mistici autentici', testimoni di un 'soprannaturale' assolutamente Altro.
Ma nelle parole di Eckhart e Maharaj si dovrebbe cogliere un punto essenziale: non può esserci un 'io' ipertrofico semplicemente perché non c'è un 'io'! Il punto è proprio questo: non è un 'io' che si identifica con Dio, è anzi piuttosto il contrario: Dio 'riempie' il vuoto lasciato dall'io annichilato, e in questo movimento si annichila anche il Dio-Altro, così generando lo Spirito: nelle parole di Margherita l'anima è 'senza essere, là dove era prima di essere'. E non c'è neanche Lucifero, espressione della caduta, della divisione, dell'allontanamento dall'Uno. Potrei perfino dire che Lucifero sono io adesso, nel mio egoismo che mantiene tutte le divisioni, tutte le differenze che mi garantiscono l'esistenza in quanto 'io' separato!
È esattamente in questo senso che qui si può ravvisare una sorta di mancanza di 'rispetto per l'esperienza dei mistici autentici': considero tali esperienze come esperienze 'psicologiche' di un io ipertrofico, che con la mistica non hanno nulla a che vedere. Con la santità, forse, ma non con la mistica. Illuminante a questo proposito quanto dice Marco Vannini:

La vera scomparsa dell'io avviene quando scompare anche Dio come ente-altro, e solo allora appare lo spirito, impersonale e sommamente personale: la conoscenza di noi stessi è la conoscenza stessa di Dio, e non è un conoscere, ma un essere. Il santo guarda la Croce, straziato dalla dolorosa certezza di essere sempre altro dal Crocifisso: il mistico rivive l'esperienza di Cristo, quella di essere con Dio un solo spirito, perciò scandalizza il "credente" e finisce tanto spesso sul rogo.



- 2 +. Mail ricevuta il 19.1.2000

Oggetto: Chiarimenti

Gentile autore,
scorrendo le pagine del Suo ottimo e documentato sito e leggendovi i Suoi puntuali interventi mi sono sorti alcuni interrogativi che mi permetto di sottoporre alla Sua perizia (*):
1) In risposta all'obiezione di un visitatore sul rischio di una ipertrofia dell'io dilatato a misura di Dio nell'esperienza mistica, Lei ribatte affermando come l'esperienza mistica sia costituita dalla realizzazione della vacuità di un io . Come si può conciliare ciò con quanto da Lei affermato subito oltre parlando di un io che si è annichilito ed il cui "posto" reso vacante sarebbe occupato dalla divinità? Se l'io "ab initio" non esiste come può annichilirsi o lasciare spazio a Dio (*)? "Chi" sarebbe il fruitore dell'esperienza mistica: un io inesistente da sempre o un Dio da sempre esistente, Uno assoluto e dunque senza esperienza di alcuno, neppure di un "se stesso", che ne reduplicherebbe l'assoluta semplicità (*)?
2) Brevemente riguardo alle annotazioni sul caso de Mello: mi pare di notare la posizione di un superamento della mediazione del Cristo verso l'attingimento di un Dio al di là di ogni caratterizzazione positiva ed idolatrica. Ma non è proprio in Cristo che Dio viene ri-velato non come sostanza ma come svuotamento (*),kenosi,partecipazione dell'umanità a quell'atto di distacco e amore che costituisce l'abisso trinitario stesso? Non vi è qualche ambiguità nell'enfatizzare la via apofatica, la non-conoscenza,correndo poi il rischio di ipostatizzare e definire "divinità" o "Dio al di là di Dio" la sola impossibilità gnoseologica di attingere il divino (*) al di là dell'apertura ad un suo reale darsi in quanto Altro (non altra cosa) in una rivelazione indeducibile da ogni nostra razionalizzazione e artificio linguistico suggestivo ma poco significante, piuttosto "estetizzante" ma poco efficace (*)? L' utilizzo spesso troppo enfatico di alcuni passi eckhartiani che sembrano suggerire il superamento della dimensione trinitaria (*) ( e dunque, direbbe Vannini, la negazione del concetto di Spirito, unitas spiritus, contemporaneamente,identico ed altro, intimo ed estremo, Lontano-Vicino come afferma la Porete, per ricadere nell'idolatria di un Uno come pura negazione della molteplicità e dunque ancora considerato all'interno di un pensiero oppositivo e negante) non tradisce un insufficiente approfondimento della mistica trinitaria e della concezione delle Persone intese non come individualità oppositive, non come appropriazioni sul piano dell'essere ma al contrario i "nomi" di Padre, Figlio e Spirito come paradossali indicazioni apofatiche dell'atto di distacco e svuotamento di sè, di disappropriazione totale di ciascuna Persona verso le altre, di svuotamento da ogni individualità oppositiva per non essere se non tutte in ciascuna, reciprocamente, in una unità non esclusiva ma inclusiva dell'altro, vera coincidenza e non mera soppressione degli opposti? Sradicata dal suo terreno cristologico e trinitario, sempre da indagare ed approfondire,lasciandosi interpellare dal suo mistero e dalla sua alterità incatturabile (*) e questionante per un pensiero non pigro ed affrettato verso facili "scavalcamenti" (*) , non corre il rischio la mistica di vanificare le sue stesse premesse e promesse di assolutezza? Concludendo e rimettendomi alla sua competenza mi permetto di rinviarLa alla interessante prefazione di M.Cacciari al testo di Vannini "Mistica e filosofia" ed.Piemme dove,insieme ad altre interessanti considerazioni sembra centrare quella che definisce l'aporia del mistico. "L'anima annihilita, puro Aperto, equivale al Ni-ente del puro Inizio, al di là di ogni determinazione- negazione...Ma se è così l'Inizio dovrebbe essere pensato come assoluta In-differenza e cioè in modo tale da poter di nuovo comprendere in sè le differenze stesse (da poter comprendere in sè la possibilità di ciò che lo nega, ovvero la propria stessa im-possibilità (*)). Se questo passo non viene compiuto, allora l'Inizio sta come dimensione separata, come quella parte del tutto che si oppone alle determinazioni dell'essere, e dunque nel "gioco" di determinazione-negazione che l'anima pretendeva, invece, di oltrepassare. In altri termini se l'Ultimo-Inizio corrisponde alla risoluzione di tutte le contraddizioni (e cioè al comprenderle tutte), dovrà comprendere anche la possibilità di ciò che contraddice la risoluzione in Uno di tutte le contraddizioni. Il Mistico speculativo non può dimenticare (*) o "epochizzare" questa domanda. Ma ricorda veramente? o non ritroviamo qui proprio il limite speculativo del suo "itinerarium"?"
Distinti saluti

Osservazioni
Grazie per questa formidabile mail. Per le mie osservazioni in proposito, vedi le note nel testo. Spero in una continuazione, davvero non voglio avere l'ultima parola.


- 3 +. Mail ricevuta il 25.1.2000

Oggetto: Considerazioni...

Gentile autore,
desidero innanzi tutto ringraziarLa per aver pazientemente preso in considerazione le mie perplessità certamente imputabili alla mia scarsa conoscenza della materia . Devo poi aggiungere che Le sue puntuali precisazioni sono state utilissime non tanto per fugare i dubbi in questione bensì per incrementare l'interrogazione sulla possibilità e pensabilità dell'esperienza e del vissuto mistico, esperienza "impossibile", come mi pare di capire, proprio a causa dell'assoluta unicità del Reale che non tollera alterità di sorta. Resta forte l'impressione che l'accento da Lei posto sul marcato apofatismo e sul carattere indicibile del vissuto mistico - che "vissuto" non è, esperienza non è - non si sottragga al rischio della vanificazione del carattere speculativo della mistica del suo carattere razionale e dialettico coestensivo in ciò alla più pura vocazione filosofica (v. il paragrafo "Mistica e filosofia" in "Il volto del Dio nascosto" di Vannini, e qui Cacciari potrebbe rientrare in campo a pieno titolo) capace di attingere "L'unità concreta di quelle determinazioni che per l'intelligenza finita valgono solo nella loro separatezza e contrapposizione" (Vannini "Il volto..." pag. 11) rendendo possibile quell'esperienza che, da Lei negata, Vannini afferma consistere "nell'esperienza dell'Uno, ossia dell'Unità profonda tra uomo e Dio" (ivi pag. 10). Si parla qui dell'attingimento di una unità o meglio di una non-dualità (termine che sembra più appropriato per eludere lo scoglio della concezione dell'unità esclusiva del molteplice, negatrice e dunque negata da esso) tra Uno ed Altro, esperienza di un "fruitore" dell'Uno che non si opponga, moltiplicandola, all'unità del Reale, nè sia da questo negata nell'affermazione, veramente non razionale e non dialettica di una Realtà ineffabile, mitica più che mistica, monistica e statica più che una e dialettica.Una vera "unitas spiritus" e non un monismo statico ed inerte, direbbe Vannini, non esclusivo ma inclusivo dell'alterità e della ricchezza di un molteplice unificato e non soppresso. Una concezione di mistica,quella da Lei profilata, dunque ben lontana dall'identificarsi con quella esperienza assolutamente "normale", priva del carattere di eccezionalità, soprannaturalità, esclusività che sempre celano volontà di appropriazione ma capace invece di cogliere "l'Assoluto, l'infinito in tutte le cose, in ogni finito", vedendo "la presenza di Dio dappertutto (dappertutto e in nessun luogo come diceva Plotino) e che combatte ogni concezione gelosa e particolaristica del divino stesso" (Vannini, "Il volto..." pag. 25) ed in cui il divino compare non come dimensione separata o inglobante, cancellandoli, il molteplice e l'alterità, non come contenuto, fosse pure il "Reale" (perchè l'uso, da parte Sua, della maiuscola se non per segnalarne l'eccezionalità rispetto alla pienezza della vita, alla perfetta letizia di una vita in cui è "il comune, il normale, il quotidiano a ricevere dallo spirito il carattere dell'assoluto" ?). Ecco perchè non vi è esperienza dello spirito se non in quanto esperienza della Trinità, non ridotta a mero concetto - essendo il concetto sempre psichico, incline a opporre e separare unità e alterità, identità e differenza, incapace di quella coincidentia oppositorum che è la Trinità, lo Spirito - ma identificata con la realtà stessa ed innervante di sè ogni realtà. "La teologia trinitaria, non in quanto schema mitologico, ma in quanto modello di ogni dialettica permette ad Eckhart di affermare che è Dio a generare in te il Verbo, così come in eterno lo ha generato e continuamente lo genera, proprio mentre tu generi il Verbo stesso. Ed è qui che il maestro domenicano rivela il suo profondo radicamento nel cristianesimo, tale da non poter essere neppure immaginato fuori da questa tradizione" (Vannini, "L'esperienza dello spirito" ed. Augustinus pag. 24). Sarebbe dunque consigliabile un'approfondimento più criticamente fondato alle affermazioni di un superamento del trinitario in Eckhart (peraltro tematizzato quasi esclusivamente nelle opere tedesche e non in quelle latine), un approccio attento all'uso delle categorie linguistiche ed al radicamento mai rinnegato del maestro alla Scolastica. Preziose indicazioni in proposito si possono reperire nelle opere dedicate al maestro da parte di Alain De Libera in particolare il recente "Meister Eckhart e la mistica renana" e da Alessandra Saccon "Nascita e logos" (solo per citarne alcuni). Non mi resta infine salutandoLa che sottolineare la preziosità della Sua affermazione "Il nostro problema è che continuiamo a proiettare sulla nostra idea del Reale le nostre idee su come questo Reale immaginato dovrebbe avere rapporti col mondo (vi è un mondo?) che sperimentiamo (chi?)" ed unirmi alla preghiera eckhartiana "prego Dio che mi liberi da Dio" (ma non è ribadita proprio in questa preghiera l'alterità forte ed incatturabile di un divino irriducibile ad ogni cattura idealistica, sempre oltre ed altro, contemporaneamente Lontano-Vicino come direbbe Margherita Porete, tra le fiamme?). Distinti saluti.

Osservazioni

Da questa mail capisco una cosa, che credo importante: ho sempre ritenuto che il pensiero dell'Uno (mi si perdoni l'utilizzo della maiuscola, che uso per convenzione) fosse sgradito in quanto negante un termine soprannaturale (Dio) e fosse quindi letto come arrogante forma di deificazione dell'uomo. Probabilmente questo aspetto rimane, ma qui ne colgo un altro, e precisamente il fastidio di fronte a una "Realtà ineffabile, mitica più che mistica, monistica e statica più che una e dialettica". In questo contesto viene anche posta la "teologia trinitaria [...] modello di ogni dialettica". Entrambi questi punti sono facilmente contestabili, direi: per il primo basta leggere un qualsiasi passo di mistici dell'Uno dove si coglie tutta la dialettica che possiamo desiderare. Circa il secondo, basta cercare questi passi tra mistici che di sicuro non dipendono dalla teologia trinitaria per renderci conto che tale teologia non è il modello di ogni dialettica, anche se certamente è un modello valido e ricchissimo. Cito naturalmente il 'mio' Maharaj:


e anche la 'paura' di una sterile fuga dal mondo viene sanata:

Inoltre leggo in questa mail una cosa estremamente interessante, che riduce praticamente a zero questo nostro dibattito: "non vi è esperienza dello spirito se non in quanto esperienza della Trinità, non ridotta a mero concetto [...] ma identificata con la realtà stessa ed innervante di sè ogni realtà". Perfetto! Qui è solo una questione di termini: la Trinità viene identificata con quello che Maharaj chiama la Realtà, chiamiamola pure così. Non mi piace la parola 'esperienza' della Trinità/Realtà per i motivi dei quali abbiamo già parlato, ma mi pare che questo sia già un passo avanti. Almeno, per il dilettante che sono, e che cerca ciò che unisce, lo è.
Per concludere, certo che il divino è "irriducibile ad ogni cattura idealistica". E chi l'ha mai negato? Ma non è questa l'alterità di cui si tratta, direi.



In data 26.1 ho ricevuto un'altra bella mail dello stesso autore della quale mi piace riportare la conclusione:

È curioso e bello ritrovare nelle Sue stesse citazioni tale oscillazione [tra passaggi inclinanti a suggestioni "advaitiche" ed impersonali e quelli più dialettici, personalistici e trinitari] che è contraddizione solo se privata del luogo trinitario del dialogo e della comunione, dove da un lato viene riportata l'esperienza dell'amore e della comunione reciproca e dall'altro annullata nell'unità, che solamente appare molteplice ed aperta all'alterità, alla dialettica ed al gioco degli opposti.


Sono certo che chiunque legga con entrambi gli occhi dell'anima trovi il "luogo trinitario del dialogo e della comunione" anche al di fuori del cristianesimo, oltre ogni chiusura confessionale: "Nel cercare, scopri che non sei né il corpo né la mente, ma l'amore del sé in te, per il sé che è nel tutto. I due sono uno. La coscienza in te e in me, apparentemente separate, in realtà sono identiche: cercano l'unità e questo è amore".
Grazie.







Home