I.: In molti paesi le autorità inquirenti seguono pratiche il cui scopo è di strappare confessioni all'imputato e, se occorre, di cambiare la sua personalità. Con una precisa scelta di menomazioni fisiche e morali, e grazie alla persuasione, la vecchia personalità è infranta e sostituita da una nuova. All'imputato si martella con tanta tenacia che è un nemico dello Stato e un traditore, che viene il giorno in cui qualcosa dentro si spezza, ed egli incomincia a persuadersi di essere davvero un traditore, un ribelle, un infame che merita la punizione più atroce. Questo processo è noto come lavaggio del cervello.
Mi colpisce il fatto che le pratiche religiose e di yoga siano molto simili al lavaggio del cervello. Analoghe sono la menomazione fisica e intellettuale, l'isolamento, un senso incentivato della colpa, la disperazione e un desiderio di sottrarsi espiando e convertendosi, nonché l'adozione di una nuova immagine di sé. Analoga, la ripetizione di formule: "Dio è buono, il maestro (il partito) sa, la fede mi salverà". Nelle cosiddette pratiche yogiche o religiose, opera lo stesso meccanismo. La mente è costretta a fissarsi su un'idea a esclusione di tutte le altre, e la concentrazione è potentemente rafforzata da una rigida disciplina e austerità dolorose. Si paga un alto prezzo in termini di vita e felicità, e ciò che si ottiene in cambio sembra perciò di grande importanza. Questa conversione prestabilita, ovvia o nascosta che sia, religiosa o politica, etica o sociale, può apparire genuina e duratura, tuttavia c'è in essa un che di artificioso.
M.: Hai ragione. La mente, sottoposta a tanti rigori, va fuori posto e si blocca. Il suo stato diventa precario; qualunque cosa intraprenda, la sua schiavitù aumenta.
I.: Ma allora perché si prescrivono le discipline, i sadhana?
M.: Perché finché non hai fatto degli sforzi tremendi, non ti convinci che ogni sforzo è inutile. Il sé è tanto sicuro di se stesso che cede solo se viene irreversibilmente scoraggiato. Un mero convincimento verbale non basta. Solo i duri fatti possono mostrare l'assoluta inanità dell'immagine che ci si fa di se stessi.
I.: Il lavaggio del cervello mi fa impazzire, e il maestro mi fa rinsavire. Il procedimento è lo stesso. Ma il motivo e lo scopo sono diversissimi. Le somiglianze sono solo verbali.
M.: L'invito o la costrizione a soffrire sono in sé crudeli e violenti, e il frutto della violenza non può essere dolce.
Ci sono nella vita delle situazioni inevitabilmente dolorose che devi affrontare. Ci sono anche delle brutte situazioni che hai creato tu, deliberatamente o per negligenza, e da queste devi apprendere l'arte di non ripetere lo stesso errore.
I.: Dobbiamo soffrire per imparare a vincere il dolore.
M.: Il dolore è dolore, e va sopportato. Non puoi vincerlo, né serve allenarsi. Allenarsi per il futuro, adottare atteggiamenti, è un segno di paura.
I.: Se so fronteggiare il dolore, ne sono libero, non lo temo e perciò sono felice. È quello che succede a un prigioniero. Accetta la sua punizione come giusta e adatta, ed è in pace con le autorità della prigione e con lo Stato. Tutte le religioni non fanno che predicare l'accettazione e la resa. Siamo incoraggiati a dichiararci colpevoli, a sentirci responsabili di tutti i mali del mondo e a indicare noi stessi come unica loro causa. Il mio problema è: non riesco a vedere una gran differenza tra il lavaggio del cervello e la disciplina (sadhana), tranne il fatto che nel caso del sadhana non si è vincolati fisicamente. Ma l'elemento di suggestione coatta è presente in ambedue.
M.: L'hai detto, le somiglianze sono superficiali. Non c'è bisogno che insista.
I.: Le somiglianze non sono superficiali. L'uomo è una creatura complessa, e può essere allo stesso tempo accusatore e accusato, giudice, guardiano e carnefice. Non c'è molto di volontario in una disciplina "volontaria". Si è mossi da forze incontrollabili e oscure. So cambiare così poco il mio metabolismo mentale, quanto quello fisico, a meno di sforzi dolorosi e protratti - e questo si chiama yoga -. Concordate con me sul fatto che lo yoga implica violenza?
M.: Sì, lo è, e io disapprovo qualsiasi forma di violenza. La mia via è totalmente non violenta. Intendo esattamente ciò che dico: non violenta. Scopri da te che cos'è. Io mi limito a dire: non è violenta.
I.: Non sto adoperando male le parole. Quando mi si chiede di meditare sedici ore al giorno finché campo, è ovvio che non posso farlo senza impormi un'estrema violenza. Un maestro del genere ha ragione o torto?
M.: Nessuno ti costringe a meditare sedici ore al giorno, a meno che tu non senta di farlo. È solo un modo per dirti: "Rimani con te stesso, non perderti fra gli altri". L'insegnante può attendere, ma la mente è impaziente.
Il maestro non è violento ma la mente sì, e anche impaurita dalla propria violenza. Ciò che appartiene alla mente è relativo, tramutarlo in un assoluto è un errore.
I.: Se resto passivo, niente cambia. Se sono attivo, devo essere violento. Che posso fare che non sia né sterile né violento?
M.: Naturalmente c'è una strada che non è né violenta né sterile, e tuttavia sommamente efficace. Ossèrvati, vediti, accèttati come sei, e scendi ancora più a fondo in ciò che sei. Violenza e non-violenza descrivono il tuo atteggiamento verso gli altri; il sé in rapporto a se stesso, non è né l'una né l'altra cosa, è consapevole o inconsapevole di sé. Se si conosce, tutto ciò che fa sarà giusto; altrimenti, sarà tutto sbagliato.
I.: Che significa conoscersi come si è?
M.: Prima della mente: sono. "Io sono" non è un pensiero nella mente: è la mente che accade a me, non io alla mente. E poiché tempo e spazio sono in essa, io sono al di là, onnipresente e eterno.
I.: Dite sul serio? Davvero siete dappertutto e sempre?
M.: Certo. Per me è tanto ovvio quanto per te lo è la libertà di movimento. Immagina un albero che chieda a una scimmia: "Davvero dici che puoi muoverti a volontà?". E la scimmia: "Sì, certo(1) ".
I.: Siete anche svincolato dalla legge di causalità? Potete fare miracoli?
M.: Il mondo stesso è un miracolo. Io sono oltre i miracoli: giusto normale. Con me, tutto avviene come deve. Non interferisco con la creazione. A che mi servono i piccoli prodigi, quando il più grande di tutti avviene ininterrottamente? Tutto quello che vedi è sempre un vedere te. Scova, cerca sempre più nel tuo essere: nella scoperta di sé, non c'è violenza o non-violenza. La distruzione del falso non è una violenza.
I.: Quando pratico l'autoanalisi o mi concentro sull'idea del vantaggio che me ne viene, anche in questo caso sfuggo a ciò che sono.
M.: Giustissimo. La vera indagine è sempre dentro, mai fuori. Quando indago su come ottenere o evitare qualcosa, non sto veramente indagando. Per conoscere una cosa devo accettarla: totalmente.
I.: Sì, per conoscere Dio devo accettarlo: terrificante!
M.: Prima di accettare Dio, devi accettare te stesso, il che è ancor più terrificante. I primi passi nell'accettazione di sé non sono piacevoli, perché quella che vedi non è una visione allegra. Occorre un enorme coraggio per proseguire. Ciò che aiuta è il silenzio. Perfettamente silenzioso, non descriverti, ossèrvati. Osserva colui che credi di essere, e ricorda: non sei quello che vedi. "Non sono questo; io chi sono?" è il movimento dell'auto-analisi. Non ci sono altri metodi per la liberazione, tutti i mezzi comportano un ritardo. Rifiuta con decisione ciò che non sei, finché vedrai emergere il vero te stesso nella sua fulgida vacuità, nella sua non-entità.
I.: Il mondo sta cambiando. È un processo rapido e pericoloso. Lo si può vedere con chiarezza negli Stati Uniti, anche se il fenomeno investe il mondo intero. La criminalità aumenta di pari passo con la più genuina innocenza. Si formano delle comunità i cui membri raggiungono talvolta un livello di integrità davvero esemplare. È come se il male si distribuisse da sé, grazie ai propri successi, come un fuoco che consuma il suo carburante, mentre il bene, come la vita, perpetua se stesso.
M.: Finché dividi gli avvenimenti in buoni e cattivi, puoi avere ragione. Perché il bene si tramuta in male e viceversa, ciascuno per il proprio esaudimento.
I.: E l'amore?
M.: Quando si volge in avidità, diventa distruttivo.
I.: Che cos'è l'avidità?
M.: Ricordare, immaginare, anticipare. È una faccenda sensoriale e verbale. Una specie di intossicazione.
I.: Lo stato di brahmacharya, la continenza, è imperativo nello yoga?
M.: Una vita di costrizione e repressione non è yoga. I desideri devono essere liberi, la mente rilassata. La continenza viene con la comprensione, non con la determinazione, che è un'altra forma di memoria. Una mente che comprende, è libera da desideri e paure.
I.: Come posso farmi capire?
M.: Meditando, ossia prestando attenzione. Sii consapevole dei tuoi problemi, guardali da ogni lato, osserva come influenzano la tua vita. Poi lasciali soli. Non puoi fare di più.
I.: Mi libererà?
M.: Sei libero da ciò che hai capito. Le espressioni esterne della libertà possono metterci tempo ad apparire, ma ci sono già. Non aspettarti la perfezione. Nella manifestazione non esiste. I dettagli devono cozzare. Nessun problema viene risolto completamente, ma tu puoi ritrartene e porti a un livello sul quale non ha presa.