84. 29 Dicembre 1971




I.: Avete detto che molti si proclamano maestri, ma che un maestro verace è molto raro. Ci sono poi i cosiddetti saggi (gnani), che si immaginano realizzati, ma non hanno che una conoscenza libresca e un'alta opinione di sé. A volte impressionano, affascinano addirittura, attraggono i discepoli e li spingono a perder tempo in pratiche inutili. Dopo qualche anno, il discepolo si accorge di non essere minimamente cambiato. Quando se ne lamenta con l'insegnante, ottiene il solito rabbuffo: non si è applicato abbastanza, non ce l'ha messa tutta. Gli si rimprovera la sua scarsità di fiducia e di amore, mentre in realtà il biasimo dovrebbe ricadere sul maestro, che poteva ben esimersi dall'accogliere discepoli, e seminare speranze. Come difendersi da "maestri" del genere?
M.: Perché occuparsi degli altri? Chiunque il maestro sia, se è puro di cuore e agisce in buona fede, non farà alcun male ai discepoli. Se non progrediscono, il biasimo va a loro, alla loro pigrizia e mancanza di autocontrollo. Se invece il discepolo è serio, e compie la sua disciplina con intelligenza ed entusiasmo, inevitabilmente incontrerà un maestro migliore, che lo farà avanzare. La tua domanda nasce da tre idee sbagliate: che ci si debba occupare degli altri; che si possa giudicare; e che il progresso del discepolo sia compito e responsabilità del maestro. In realtà, il suo ruolo è solo di istruire e incoraggiare. Il discepolo è totalmente responsabile di se stesso.
I.: Ci si dice che basta la resa totale al maestro, che il resto lo farà lui.
M.: Naturalmente, quando c'è una resa totale, una completa rinuncia a ogni legame con il proprio passato, presente e futuro, e con la sicurezza materiale e spirituale, albeggia una nuova vita, piena d'amore e bellezza; a quel punto il maestro non è importante, perché il discepolo ha rotto il guscio dell'autodifesa. La resa completa è di per sé una liberazione.
I.: Che accade se tanto il discepolo quanto il maestro sono inadeguati?
M.: Alla lunga tutto andrà bene. In fin dei conti, il vero sé di entrambi non è influenzato dalla commedia che rappresentano temporaneamente. Rinsaviranno, matureranno e passeranno a un rapporto di qualità superiore.
I.: Potranno separarsi?
M.: Sì. Nessun rapporto è eterno. La dualità è uno stato temporaneo.
I.: Il caso ha voluto che v'incontrassi, e sarà di nuovo il caso a separarci? O il nostro incontro fa parte di un disegno cosmico, è un frammento nel grande dramma della vita?
M.: Il reale è significativo, e ciò che ha significato appartiene alla realtà. Se il nostro rapporto ha un senso per te e per me, non può essere casuale. Il futuro influenza il presente quanto il passato.
I.: Come posso capire chi è un vero realizzato e chi no?
M.: Non puoi, a meno di non avere una nitida visione del cuore dell'uomo. Le apparenze ingannano. Per vedere in trasparenza, la tua mente deve essere pura e distaccata. Se non conosci bene te stesso, come puoi conoscere un altro(1)? E quando ti conosci, sei l'altro.
Lascia stare gli altri per un po', e guardati. Quante cose ci sono di te che non sai: chi sei, perché sei nato, perché fai ciò che fai; qual è il significato e lo scopo della tua vita, della tua morte, del tuo futuro. Hai un passato, avrai un futuro? Come hai potuto vivere nell'affanno e nella sofferenza, mentre tutto il tuo essere anela alla felicità e alla pace? Sono domande scottanti, che si devono affrontare per prime. Non hai né il bisogno né il tempo di accertare chi sia un realizzato e chi no.
I.: Ma devo saper trovare il maestro giusto.
M.: Sii l'uomo giusto, e il giusto maestro sicuramente troverà te.
I.: Ma non avete risposto alla domanda: come trovarlo?
M.: Sì che ho risposto. Il maestro non cercarlo, non pensarci nemmeno. Fa' che il tuo scopo diventi il maestro. Dopotutto, il maestro è un mezzo per raggiungere un fine, non è quel fine. Non è importante lui, ma quello che ti aspetti da lui. Tu, che cosa ti aspetti?
I.: Grazie a lui, diventare felice, potente, appagato.
M.: Che ambizioni! Come può una creatura limitata nel tempo e nello spazio, un semplice corpo-mente, un singhiozzo di dolore tra la nascita e la morte, essere felice? Le stesse condizioni della sua nascita lo precludono. La pace, il potere, la felicità, non sono mai condizioni personali, nessuno può dire "la mia pace", "il mio potere" - perché "mio" implica un'esclusività che è fragile e insicura -. Devono essere condivisi per durare.
I.: Io conosco solo la mia esistenza condizionata; non c'è nient'altro.
M.: Ti sbagli. Nel sonno profondo, non sei condizionato. Ci tieni ad andare a dormire, perché nel sonno sei perfettamente in pace, libero e felice.
I.: Non so di esserlo.
M.: Mettila al negativo. Quando dormi, non hai pene, condizionamenti, inquietudini.
I.: Significa che da sveglio, sono, so di esserlo, ma non sono felice; nel sonno, sono, sono felice, ma non so di esserlo. Mi basta dunque sapere che sono libero e felice.
M.: Proprio così. Ed ora, dalla veglia vera e propria, scendi più giù, in uno stato che assomiglia a un sonno vigile, in cui sei consapevole di te, ma non del mondo. In quello stato saprai con certezza che alla radice del tuo essere sei libero e felice. L'unico problema è che dipendi dall'esperienza e blandisci i ricordi. Nella realtà vale il contrario: ciò che si ricorda non è mai reale; il reale è ora.
I.: Lo afferro a parole, ma non so farlo mio. L'ho in mente come un quadro da osservare. Non sta al maestro animare il quadro?
M.: È di nuovo il contrario. Il quadro è vivo, è la mente che è morta. Come ogni cosa che vi si rifletta, essa è fatta di immagini e parole. Prima avvolge la realtà di parole e poi se ne lamenta. Dici che ti occorre un maestro, capace di fare miracoli. Stai solo giocando con le parole. Il maestro e il discepolo sono una cosa sola, come la candela e la fiamma. Se il discepolo non è serio, non puoi chiamarlo discepolo. Se il maestro non è tutto amore e abnegazione, non puoi chiamarlo maestro. È la realtà che produce realtà, non il falso.
I.: Posso vedere che sono falso. Chi mi renderà vero?
M.: La frase che hai appena detto: "posso vedere che sono falso", già contiene tutto ciò che ti serve a liberarti. Meditala, penetrala fino in fondo; funzionerà. Il potere è nella parola, non nella persona.
I.: Da una parte dite che è necessario un maestro, ma solo per consigliare, perché lo sforzo è mio. Per favore, siate chiaro: è possibile realizzarsi da soli, o è indispensabile trovare un maestro?
M.: È più indispensabile trovare un discepolo. Credimi, un vero discepolo è assai raro, perché in un batter d'occhio supera il bisogno del maestro quando incontra se stesso. Non passare il tempo a scoprire se il mio consiglio è teorico o proviene da un'esperienza valida. Lìmitati a seguirlo con fede. La vita potrà offrirti un altro maestro, se davvero ti occorre. O ti priverà di ogni guida esterna, e ti affiderà alla tua luce. È molto importante capire che è l'insegnamento che conta, non la persona del maestro. Ricevi una lettera che ti fa ridere o piangere. Il postino non c'entra. Così, il maestro ti dà solo le buone notizie sul vero te stesso, e ti mostra la via per tornarvi. In un certo senso, è il messaggero del sé(2). Gli informatori possono essere tanti, ma il messaggio è uno solo: sii ciò che sei. Ovvero: finché non conosci te stesso, non puoi sapere chi è il vero maestro. E dopo che ti sei realizzato, scopri che tutti i maestri che hai incontrato hanno contribuito al tuo risveglio, il quale è la prova che il maestro era vero. Perciò, prendilo com'è, fa' ciò che ti dice con zelo e serietà, e affidati al cuore, che ti avverta se qualcosa va storto. Se s'instaura il dubbio, non combatterlo. Consègnati a ciò che è indubbio, e lascia il dubbio a se stesso.
I.: Ho un maestro che amo molto. Ma non so se sia o no quello vero.
M.: Ossèrvati. Se stai cambiando, se ti sembra di crescere, significa che hai trovato l'uomo giusto. Può essere bello o brutto, gradevole o sgradevole, può adularti o rimproverarti; nulla importa tranne il fatto cruciale della crescita interiore. Se invece non cresci, potrà essere un tuo buon amico, ma certamente non è il tuo maestro.
I.: Quando incontro un Europeo istruito e gli parlo del maestro e di ciò che insegna, la sua reazione è: "Quell'uomo dev'essere matto per impartire simili sciocchezze". Che cosa devo dirgli?
M.: Conducilo a se stesso. Mostragli quanto poco si conosca, e come prenda per sacrosanta verità le affermazioni più assurde sul suo conto. Gli si dice che egli è il corpo, che è nato, che morirà, che ha dei genitori, dei doveri; ligio ad amare ciò che gli altri amano, e a temere ciò che temono. Creatura totalmente determinata dall'eredità e dalla società, vive di ricordi e agisce per abitudine. Senza conoscere se stesso e i suoi veri interessi, persegue falsi scopi ed è sempre frustrato. La sua vita e la sua morte sono insignificanti e dolorose, senza scampo apparente. A quel punto digli che una via d'uscita c'è, a portata di mano: non è una conversione a un diverso sistema di idee, ma una liberazione da ogni idea e schema di esistenza. Non parlargli di maestri e discepoli: non è un argomento adatto a lui. Il suo è un cammino interiore, un impulso e una luce che lo muovono e lo guidano dall'interno. Invitalo a ribellarsi e risponderà. Non cercare di inculcargli l'idea che il tale è un realizzato e va bene come maestro. Finché non ha fiducia in sé, non può darla a un altro. Ma è una fiducia che verrà coll'esperienza.
I.: Che strano! Non posso immaginare la vita senza un maestro.
M.: È una questione di temperamento. Hai ragione anche tu. Per te, è sufficiente cantare le lodi di Dio. Non ti occorre desiderare la realizzazione, intraprendere una disciplina. Il nome di Dio è tutto il cibo che t'occorre. Vivi di esso.
I.: Questa costante ripetizione di poche parole, non è una specie di follia?
M.: È una follia calcolata. La ripetitività è, per sua natura, tamas, ma ripetere il nome di Dio è sattva-tamas, perché ha uno scopo più alto. Grazie alla presenza del sattva, il tamas si logora via via, finché assume la forma della perfetta imparzialità, del distacco impassibile e immutabile. Il tamas diventa il fondamento su cui vivere una vita integrata.
I.: Ciò che è immutabile è morto.
M.: Al contrario, cambia ciò che muore. L'immutabile non vive né muore: è il testimone della vita e della morte, al di fuori del tempo. Non puoi dirlo morto, perché è consapevole. Né vivo, perché non cambia. È come il tuo registratore. Registra, riproduce - tutto da sé -. Tu ascolti soltanto. Allo stesso modo, io osservo tutto ciò che avviene, incluso il fatto che ti parlo. Non sono io che parlo, le parole mi appaiono nella mente, e poi le odo pronunciate.
I.: Non è così per tutti?
M.: E chi dice di no? Ma sei tu a insistere sul fatto che tu pensi, tu parli, mentre per me c'è un pensare, un parlare.
I.: I casi sono due: ho trovato un maestro o non l'ho trovato. Che cosa è giusto fare?
M.: Non sei mai senza il maestro, perché egli è nel tuo cuore al di fuori del tempo. A volte si esteriorizza e viene a te, come uno strumento di elevazione e di riforma nella tua vita, può essere una madre, una moglie, un maestro vero e proprio; o rimane come una spinta interiore alla giustizia e alla perfezione. Devi solo obbedirgli. Ciò che ti chiede di fare è semplice: apprendere l'autoconsapevolezza, l'autocontrollo, la resa. Può sembrare arduo, ma se sei serio non lo è. E se non lo sei, è assolutamente impossibile. La serietà è necessaria e sufficiente. Tutto si arrende alla serietà.
I.: Che cosa rende seri?
M.: La compassione è il fondamento della serietà. La compassione per te e per gli altri, che nasce dalla sofferenza tua e altrui.
I.: Devo soffrire per essere serio?
M.: Non è necessario, se sei naturalmente sensibile al dolore, com'era il Buddha. Ma se sei duro e spietato, la tua stessa sofferenza ti farà porre le domande inevitabili.
I.: Per soffrire, soffro, ma non abbastanza. La vita è sgradevole, ma sopportabile. I piccoli piaceri mi compensano dei piccoli dolori, e nell'insieme sono messo meglio della maggior parte della gente che conosco. So che la mia condizione è precaria, che una calamità può sopraffarmi ogni momento. Devo aspettare una crisi che mi metta sulla via della verità?
M.: Non appena ti rendi conto di quanto sia fragile la tua condizione, sei già all'erta. Perciò, sii attento, indaga, scopri gli errori del corpo e della mente, e abbandonali.
I.: E da dove mi verrà l'energia? Sono come un paralitico in una casa in fiamme.
M.: Anche i paralitici, a volte, in un momento di pericolo ritrovano le gambe! Ma tu non sei immobilizzato, immagini semplicemente di esserlo. Fa' il primo passo, e sarai sulla strada.
I.: Sento che la mia presa sul corpo è così forte che non riuscirei ad abbandonare l'idea di essere il corpo. Mi aderirà finché dura. Alcuni sostengono che nessuna realizzazione è possibile in vita, e sono incline a dar loro ragione.
M.: Prima di dichiararti o no d'accordo, perché non indaghi sull'idea stessa di corpo? È la mente che appare nel corpo o viceversa? Dev'esserci ben una mente per concepire l'idea "io-sono-il-corpo". Un corpo senza mente non può essere il "mio corpo". Il "mio corpo" non c'è quando la mente è sospesa, e neppure quando pensieri e sentimenti la impegnano fino in fondo. Quando comprenderai che il corpo dipende dalla mente, e questa dalla coscienza, che a sua volta dipende dalla consapevolezza, e non viceversa, la tua domanda, se si debba aspettare la morte per l'autorealizzazione, sarà stata soddisfatta. Non è che prima devi liberarti dell'idea "io-sono-il-corpo", e poi realizzare te stesso; ma il contrario - ti aggrappi al falso, perché ignori il vero -. La serietà, non la perfezione, è il presupposto dell'autorealizzazione. Le virtù e i poteri vengono con essa, non prima.



Tratto da Io sono Quello
Rizzoli Editore - Milano 1981, 82
Introdotto, curato e tradotto da Grazia Marchianò
Riprodotto su autorizzazione

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