73. 2 Ottobre 1971




I.: Non si deve essere prima la persona, per realizzare la propria natura autentica? L'io non ha il suo valore?
M.: La persona serve a poco. È sempre coinvolta in faccende anguste come lei, e ignara del suo vero essere. La realizzazione è fattibile solo se interviene la coscienza testimoniante, e la persona cessa di essere il soggetto per diventare l'oggetto dell'osservazione. È il testimone, che rende desiderabile e accessibile la realizzazione.
I.: C'è un momento nella vita di una persona in cui si accende il testimone?
M.: Oh, no. La persona, da sola, non ci arriva. È come attendere che una candela fredda prenda a bruciare con l'andar del tempo. Nel buio dell'ignoranza la persona può stare per sempre, a meno che la fiamma della consapevolezza non la sfiori.
I.: Chi accende la candela?
M.: Il maestro, le sue parole, la sua presenza. In India è molto spesso il mantra. Appena la candela è accesa, la fiamma la consumerà.
I.: Perché il mantra è efficace?
M.: La ripetizione costante di una formula non è un atto che la persona compia per il proprio vantaggio, perché il beneficiario non è la persona. Esattamente come la candela che non si allunga bruciando.
I.: La persona può divenire autoconsapevole da sola?
M.: Sì, talvolta come risultato di molto patire. Ed è quello che il maestro vuole risparmiarti: il dolore eterno. Tale è la sua grazia. Anche quando non c'è una guida esterna da accostare, c'è sempre il maestro interno, il sadguru. "Esterno" e "interno" sono precisazioni relative al corpo; in realtà tutto è uno, e l'esterno è una proiezione dell'interno. Invece la consapevolezza proviene da una dimensione superiore.
I.: Qual è la differenza tra prima che sprizzi la scintilla e dopo?
M.: Prima, manca il testimone per percepire la differenza. La persona può essere consapevole, ma non autoconsapevole come il testimone. Si identifica completamente con ciò che pensa e ciò che prova. Vive in un'oscurità che produce da sé. Ma non appena ha coscienza dell'oscurità, questa si dissolve. Il desiderio della presa di coscienza viene impiantato dal maestro. La differenza tra la persona e il testimone è perciò identica a quella fra il conoscersi e il non conoscersi. Quando prevale l'armonia (sattva), il mondo appare alla coscienza sostanziato di coscienza; quando prevalgono l'azione e la passività (rajas e tamas), l'immagine del mondo è offuscata e distorta, e il falso ha l'apparenza del vero.
I.: Che può fare la persona per prepararsi all'arrivo del maestro?
M.: Già il desiderio di essere pronto, indica che il maestro è arrivato, e che la fiamma si è accesa. Può essere una parola fortuita o la pagina di un libro(1); la grazia del maestro opera misteriosamente.
I.: Non ci si può preparare da soli? Molto è stato detto sullo yoga della disciplina (yoga sadhana).
M.: Chi si disciplina non è la persona. Essa è inquieta e oppone resistenza fino alla fine. È il testimone che lavora sulla persona, sulla totalità delle sue illusioni, passate, presenti e future.
I.: Come possiamo sapere che dite il vero? Anche se è coerente e funziona, che prove abbiamo che la vostra parola non sia il prodotto di una sbrigliata immaginazione, arricchita dalla ripetizione costante?
M.: La prova della verità si misura dal suo effetto su chi ascolta.
I.: L'effetto può essere formidabile. Udendo o ripetendo certe parole si possono sperimentare vari tipi di trance, ma è sempre un'esperienza indotta, e perciò non costituisce una prova.
M.: L'effetto può non essere un'esperienza, ma un cambiamento di carattere e di atteggiamento verso gli altri e se stessi. Le estasi e le visioni prodotte da parole, droghe o altri stimolanti sensoriali o mentali, sono transitorie e inconcludenti. Ciò che si dice qui è fondato su una verità immutabile, che modifica in profondità la sostanza vitale dell'ascoltatore. Non è qualcosa di cui egli possa dubitare, a meno che non dubiti, paradossalmente, della sua stessa esistenza. Quando la mia esperienza diventa anche la tua, vuoi una prova migliore?
I.: Lo sperimentatore è la prova della sua esperienza.
M.: Certo, ma allo sperimentatore non servono prove. "Io sono e so di essere", è la prova.
I.: Può esserci una conoscenza vera delle cose?
M.: In senso relativo: sì. In senso assoluto: le cose non esistono. Sapere che niente è, è la vera conoscenza.
I.: Qual è il nesso tra il relativo e l'assoluto?
M.: Sono la stessa cosa.
I.: Da quale punto di vista sono identici?
M.: Dopo le parole, c'è il silenzio. Cessato il relativo, rimane l'assoluto. Il silenzio che precede le parole, è forse diverso da quello che viene dopo? Il silenzio è uno, e senza di esso non si sarebbero potute udire le parole. È sempre là: dietro le parole. Sposta la tua attenzione dalle parole al silenzio e lo udrai. La mente desidera l'esperienza, e ne scambia il ricordo per conoscenza. Il realizzato è al di là di tutte le esperienze, e la sua memoria è vuota del passato. Egli è interamente sciolto dalle cose particolari. Ma la mente brama formule e definizioni, sempre desiderosa di esprimere la realtà in una forma verbale. Di tutto pretende di avere un'idea, perché senza idee la mente non esiste. La realtà è essenzialmente solitaria, ma la mente ci tiene a non lasciarla sola, e si occupa invece dell'irreale in quanto irreale.
I.: E il reale in quanto reale?
M.: Non esiste la possibilità di vederlo. Chi dovrebbe vedere che cosa? Tu puoi solo essere il reale: e lo sei già, in ogni caso. Il problema è solo mentale. Abbandona le idee false. Non c'è bisogno di idee vere. Non ce ne sono.
I.: Perché allora veniamo incoraggiati a cercare il reale?
M.: La mente deve avere uno scopo. Le si promette in cambio qualcosa per spronarla a svincolarsi dall'irreale. In realtà lo scopo non occorre. Essere liberi dal falso, è un bene in sé; non necessita un'ulteriore ricompensa. È come essere puliti - si premia da sé -.
I.: La ricompensa non è la conoscenza di sé?
M.: La ricompensa della conoscenza di sé è la libertà dalla persona. Non puoi conoscere il conoscitore, perché sei già il conoscitore. Il fatto di conoscere, prova che esiste. Altre prove non occorrono. Il conoscitore del conosciuto non è conoscibile. Puoi vedere la luce solo nei colori, così il conoscitore si conosce nella conoscenza.
I.: Il conoscitore è una deduzione?
M.: Conosci ben il tuo corpo, la mente e i sentimenti: saresti forse una deduzione?
I.: Per me no, ma per gli altri sì.
M.: Anch'io. Una deduzione per te, ma non per me. Conosco me stesso essendolo, così come tu sai di essere un uomo, e non hai bisogno di ricordartelo continuamente. È solo quando la tua umanità è messa in dubbio che la ribadisci. Così, io so di essere tutto. Non mi serve rammemorarlo di continuo: sono tutto, tutto. Perciò mi oppongo quando mi prendi per un individuo particolare, per la mera persona. Tu sei un uomo sempre; così, ciò che io sono, lo sono sempre. Se sei una realtà che non muta, lo sei al di là di ogni dubbio.
I.: Quando vi domando come sapete di essere un realizzato, rispondete: "Non trovo desideri in me". Questa non è forse una prova?
M.: Anche pieno di desideri, continuerei ad essere ciò che sono.
I.: Supponiamo che sia così: voi ed io egualmente desideranti. Dove sta la differenza?
M.: Tu ti identifichi coi tuoi desideri e ne diventi schiavo. Per me i desideri sono cose fra le altre, semplici nubi nel cielo mentale, e non mi sento costretto ad agire in conseguenza.
I.: Il conoscitore e la sua conoscenza sono tutt'uno o due realtà distinte?
M.: Sia uno che due. Il conoscitore è il non manifestato, il conosciuto è il manifestato: sempre mobile, mutevole, privo di forma e dimora proprie. Il conoscitore è il fondamento di ogni conoscenza. L'uno ha bisogno dell'altra, ma la realtà è al di là. Non si può conoscere il realizzato perché non c'è nessuno da conoscere(2). Quando c'è una persona, puoi dirne qualcosa; ma quando non c'è auto-identificazione col particolare, che puoi dire? Qualsiasi cosa tu dica a un realizzato, che lo riguardi, ti chiederà sempre: "Di chi parli? Non conosco quella persona". Come non si può descrivere l'universo perché include tutto, così il realizzato sfugge alla descrizione perché è sia tutto che nulla in particolare. Per appendere i quadri ti occorrono dei ganci; se non ne hai, come li appendi? Per situare un oggetto o un fatto, occorrono lo spazio e il tempo; ma ciò che è senza tempo e senza spazio resiste a ogni trattamento(3). Rende possibile la percezione, ma la oltrepassa. La mente non può conoscere ciò che la supera, piuttosto ne è conosciuta. Il realizzato non nasce e non muore; l'esistenza e la non esistenza per lui si equivalgono.
I.: Quando il vostro corpo morirà, resterete?
M.: Nulla muore. Si immagina che il corpo esista: in realtà non è.
I.: Prima della fine del secolo, sarete morto per tutti coloro che vi circondano. Il vostro corpo, coperto di fiori, sarà cremato e le ceneri sparse. Quella sarà l'esperienza dei sopravvissuti. E la vostra?
M.: Il tempo finirà: noi lo chiamiamo mahamrityu, la "grande morte", l'estinzione del tempo.
I.: Significa che l'universo e i suoi contenuti verranno meno?
M.: L'universo è la tua esperienza personale. Come può essere influenzato? Mettiamo che tu abbia tenuto una conferenza per due ore; dov'è andata quando smetti di parlare? L'ha riassorbita il silenzio in cui coincidono l'inizio, le parti intermedie e l'epilogo. Il tempo si è arrestato, era, ma non è più. Il silenzio dopo una vita di chiacchiere e il silenzio dopo una vita silenziosa è lo stesso. L'immortalità è libera dall'impronta: "io sono". Tuttavia non è un'estinzione. È uno stato infinitamente più reale, consapevole e felice di quanto immagini. Ma è scomparsa la coscienza di sé.
I.: Perché la Grande Morte della mente coincide con la "piccola morte" del corpo?
M.: Non coincide! Si può morire centinaia di morti senza uno stacco nell'irrequietezza mentale. O si può conservare il corpo e morire nella mente. La morte della mente è la nascita della sapienza.
I.: La persona dilegua e resta solo il testimone.
M.: E chi dichiara: "io sono il testimone"? Quando non c'è un "io sono" dov'è il testimone? Nello stato senza tempo non c'è un sé in cui rifugiarsi.
L'uomo che porta un pacco è ansioso di non perderlo. Chi è cosciente dell'"io sono", tiene altrettanto a serbarlo nel cuore. Il realizzato non si attacca a nulla, né puoi definire il suo stato in termini di coscienza o incoscienza: è il cuore stesso della consapevolezza. Noi lo chiamiamo digambara, "vestito di spazio", ossia ignudo, al di là di ogni apparenza. Non c'è alcun nome-e-forma sotto le cui specie puoi dire che esista, tuttavia è l'unico che davvero sia.
I.: Non capisco.
M.: E chi capisce? La mente ha i suoi limiti. Ti si può portare fino alle frontiere della conoscenza e farti protendere sull'immensità dell'ignoto. Sta a te tuffarti.
I.: Che mi dite del testimone? È reale o irreale?
M.: Tutt'e due. È l'ultimo residuo dell'illusione, e il primo tocco del reale. Se dici "sono solo il testimone", è falso e vero allo stesso tempo: falso, a causa dell'"io sono"; vero, per via del testimone. È meglio dire "c'è il testimoniare". Quando dici: "io sono", l'intero universo viene alla luce insieme al suo creatore(4).
I.: Un'altra domanda: possiamo descrivere la persona e il sé come il fratello minore e quello maggiore. II minore è molesto ed egoista, rude e irrequieto, mentre il maggiore è intelligente e gentile, ragionevole e premuroso, non identificato con i desideri e le paure del corpo. II fratello maggiore conosce il minore, ma questi ignora il primo, e crede di essere solo. Arriva il maestro e dice alla persona: "Non sei sola. Vieni da un'ottima famiglia, tuo fratello è un uomo importante, savio e gentile; ti ha molto a cuore. Perciò ricordati di lui, vagli incontro, servilo e ti fonderai in lui". Ora il problema è: ci sono due esseri in noi, la persona e l'individuo, il falso sé e quello vero, o è solo una metafora?
M.: A prima vista sembrano due, poi si scopre che diventano uno. La dualità dura finché non è messa in dubbio. La trinità: mente, sé e spirito (vyakti, vyakta, avyakta), quando sia intimamente osservata, diviene unità(5). L'attaccamento, il distacco e la trascendenza non sono altro che modalità dell'esperienza.
I.: Avete reso inoppugnabile l'assunto dello stato di sogno in cui viviamo. Qualunque obiezione solleviamo, vi limitate a invalidarla. Non si può proprio discutere con voi!
M.: Discutere è a sua volta una pretesa, così come quella di conoscere, acquistare potere, o perfino esistere. Ognuno desidera essere, sopravvivere, continuare, perché nessuno è sicuro di sé. Ma ognuno è immortale(6). Ci si rende mortali identificandosi con il corpo.
I.: Se avete trovato la libertà, perché non me ne date un po'?
M.: Perché solo un poco? Prendila tutta. È qui per essere presa. Ma tu ne hai paura!
I.: La stessa scena si verificò dallo swami Ramdas. Alcuni seguaci gli si raccolsero intorno e presero a domandargli sulla liberazione. Ramdas ascoltava sorridendo, poi all'improvviso si fece serio e disse: "Potete averla, qui, subito, la libertà perpetua e assoluta. Chi la vuole, si faccia avanti". Nessuno si mosse. Ripeté l'offerta tre volte, senza esito. Allora annunciò: "L'offerta è ritirata".
M.: L'attaccamento distrugge il coraggio. Il donatore è sempre pronto, ma chi dovrebbe ricevere manca sempre all'appello. Libertà significa lasciar andare, e questo alla gente non piace affatto. Ignorano che il finito è il prezzo dell'infinito, come la morte dell'immortalità. La maturità spirituale consiste nella prontezza a cedere tutto(7). L'abbandono è il primo passo. Ma il vero abbandono sta nel comprendere che non c'è nulla da lasciare, perché nulla è tuo. È come il sonno profondo: non rinunci al letto quando ti addormenti; semplicemente lo dimentichi.



Tratto da Io sono Quello
Rizzoli Editore - Milano 1981, 82
Introdotto, curato e tradotto da Grazia Marchianò
Riprodotto su autorizzazione

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