37. 9 Gennaio 1971




M.: Anzitutto devi convincerti che sei la prova di tutto, compreso te stesso(1). Nessuno può dimostrare che esisti, perché la sua stessa esistenza deve prima essere confermata da te. Per essere e conoscere, non sei debitore a nessuno. Ricorda, sei interamente tuo. Non vieni, non vai da nessuna parte. Sei l'essere e la consapevolezza al di là del tempo.
I.: Tra noi c'è una differenza di fondo. Voi conoscete il reale, io solo l'attività della mia mente. Perciò quello che dite è una cosa, e quello che ascolto, un'altra. Ciò che dite è vero; ciò che capisco io è falso, anche se le parole sono identiche. Come colmare questo divario?
M.: Abbandona l'idea di essere quello che credi. Il divario l'hai creato tu, immaginandoti separato. Tutto è te e tuo. Non c'è alcun altro. È un fatto(2).
I.: Che strano! Le stesse parole che per voi sono vere, per me sono false. "Non c'è alcun altro", è chiaramente falso.
M.: Lascia che le parole siano vere o false. Tanto non contano. Ciò che conta, perché ti blocca, è l'idea che hai di te. Abbandonala.
I.: Sin da piccolo sono stato abituato a pensarmi nei limiti di un nome e di una forma. Negarlo a parole non serve a sciogliere il viluppo mentale. Ci vorrebbe un lavaggio del cervello - ammesso che si possa farlo -.
M.: Lo chiami lavaggio del cervello. Chiamalo yoga: appianare le pieghe mentali. Non devi essere costretto a pensare all'infinito gli stessi pensieri. Sprimacciali, muovili un po'!
I.: A parole è facile.
M.: Non fare il bambino. È più facile cambiare che soffrire. Esci dal tuo infantilismo, basterà.
I.: Non sono cose che si fanno. Accadono.
M.: Tutto accade ininterrottamente, ma devi essere pronto. Prontezza significa maturità. Non vedi il reale perché la tua mente non è pronta.
I.: Se la realtà è la mia natura, perché non sono pronto?
M.: Non essere pronto, significa aver paura. Hai paura di ciò che sei. La tua destinazione è l'intero. Ma temi di perdere la tua identità. E questo è un infantile attaccarsi ai giocattoli, i desideri, le paure, le opinioni e le idee. Abbandonali, e tienti pronto perché il reale si affermi. Non c'è auto-asseverazione migliore dell'"Io sono". Nient'altro ha essere. Su questo la tua certezza è assoluta.
I.: "Io sono", certo, ma anche "io so". E so di essere così e così, il proprietario del corpo, in molteplici rapporti con altri proprietari.
M.: È tutto un fatto di memoria trasferita nel momento presente.
I.: Posso essere certo solo di ciò che è ora. Il passato e il futuro, il ricordo e l'immaginazione sono degli stati mentali, ma è anche tutto ciò che so, ed essi sono ora. Mi dite di abbandonarli. Come si abbandona questo istante?
M.: È un continuo scivolare nel futuro, che ti piaccia o no.
I.: Mi sposto da un presente a un presente: ossia non mi muovo affatto. Tutto il resto si muove, io no.
M.: Ma la tua mente si muove. Nell'istante che è ora, sei mobile quanto immobile. Finora hai creduto di essere ciò che si muove, e hai trascurato l'immobile. Volgi la mente all'interno. Trascura ciò che è mobile, e scoprirai di essere la realtà immutabile e ineffabile, ma solida come una roccia.
I.: Se è ora, perché non ne sono consapevole?
M.: Perché ti attacchi all'idea della non-consapevolezza. Lasciala cadere.
I.: Questo non mi rende consapevole.
M.: Aspetta. Vuoi essere contemporaneamente ai due lati della parete. Lo puoi, solo se la abbatti. Oppure convinciti che lati e parete sono un unico spazio, che non determini con un "qui" o un "lì".
I.: Le metafore non provano niente. Ho un solo rammarico: perché non vedo come voi? Perché le vostre parole non mi suonano vere? Voi siete saggio, e io stupido; voi vedete, io no. Dove e come troverò la mia saggezza?
M.: Se sai di essere stupido, non lo sei affatto.
I.: Come il sapermi ammalato non mi rende sano, così il sapersi stolti non rende saggi.
M.: Per sapere di essere ammalato, non devi star bene in partenza?
I.: Oh no. La mia conoscenza è per confronto. Se sono cieco dalla nascita, e voi mi dite che conoscete le cose senza toccarle, mentre io non posso far altro, sarò consapevole di essere cieco anche se non so che cosa significa vedere. In modo analogo, quando voi asserite qualcosa che non afferro, so che la carenza è in me. Ad esempio, amate dire che sono eterno, onnipresente, onnisciente e beato; che sarei il creatore, il preservatore e il distruttore di tutto ciò che è, la fonte della vita, il cuore dell'essere, il signore e il diletto di ogni creatura. Mi omologate alla Realtà Ultima, alla fonte e allo scopo dell'esistenza. Inarco le sopracciglia incredulo, perché mi conosco per un piccolo grumo di desideri e paure, una bolla di sofferenza, un lampo di coscienza in un oceano buio.
M.: Prima del dolore, dopo il dolore, tu sei. Dopo che sarà finito, tu resti. Il dolore passa, tu no.
I.: Mi dispiace, ma non vi seguo. Da quando sono nato a quando morirò, il piacere e il dolore avranno intrecciato la mia vita. Dell'essere prima di nascere e del restare dopo la morte non so nulla. Ciò che dite, non lo accetto né lo respingo. Lo ascolto, ma non lo conosco.
M.: In questo momento sei cosciente, non è vero?
I.: Vi prego di non interrogarmi sul prima e sul poi. So solo ciò che è ora.
M.: Benissimo. Sei cosciente. Aggrappatici. Perché, a volte, non lo sei: il tuo essere è come inconscio.
I.: Un essere inconscio?
M.: È evidente che coscienza e incoscienza in questo caso non sono i termini adatti. L'esistenza è nella coscienza, l'essenza è indipendente dalla coscienza.
I.: È forse il vuoto? Il silenzio?
M.: Perché complicare? L'essere pervade e trascende la coscienza. La coscienza oggettiva è una parte della pura coscienza, non è al di là.
I.: Come siete giunto a conoscere uno stato di puro essere che non è né cosciente né inconscio? Infatti la conoscenza è solo nella coscienza. Se si verifica una sospensione della mente, in quel caso la coscienza appare come il testimone?
M.: Solo il testimone registra gli eventi. Con la mente sospesa anche l'"io sono" si dissolve. Non c'è "io sono" senza la mente.
I.: Senza la mente significa senza i pensieri. Il pensiero: "io sono", cessa. Resta l'"io sono", come coscienza di essere.
M.: Insieme alla mente, cessa anche l'esperienza. Cioè, senza la mente non c'è né sperimentatore né esperienza.
I.: Resta il testimone?
M.: Il testimone non fa altro che registrare la presenza o l'assenza di esperienza. Non è un'esperienza in sé. ma lo diventa all'insorgere del pensiero: " io sono il testimone ".
I.: La mente talvolta è attiva, talvolta no. L'esperienza del silenzio mentale la chiamo sospensione.
M.: Che tu lo chiami silenzio, vuoto o sospensione, il fatto è che i tre - lo sperimentatore, lo sperimentare, l'esperienza - non sono. Nella testimonianza, nella consapevolezza, nell'autocoscienza, il senso di essere questo o quello, è assente. Resta l'essere non identificato.
I.: Come uno stato di incoscienza?
M.: Come ciò che è l'opposto rispetto a qualsiasi cosa. E che è anche fra gli opposti, e al di là. Non è la coscienza né l'incoscienza, né è a metà né al di là di ambedue. È in sé e per sé, senza rapporto con alcunché di affine a un'esperienza o alla sua assenza.
I.: È strano, perché ne parlate come se fosse un'esperienza.
M.: Diventa un'esperienza, quando lo penso.
I.: Come la luce invisibile che, intercettata da un fiore, diventa il suo colore?
M.: Sì, puoi dire così. È nel colore, ma non è il colore.
I.: La stessa, quadruplice negazione di Nagarjuna: né questo, né quello, né ambedue, né alcuno dei due. La mia mente annaspa!
M.: Ti trovi in difficoltà perché credi che la realtà sia uno stato di coscienza, uno tra gli altri. Tendi a dire: "Questo è reale. Quello è reale. E questo in parte sì, in parte no", come se la realtà fosse un attributo o una qualità, di cui fruire in varia misura.
I.: Provo a porlo in altri termini. La coscienza diventa un problema solo quando è coscienza del dolore. Uno stato di perenne beatitudine non solleva contrasti. La coscienza, in realtà, è una mescolanza di piacevole e spiacevole. Perché?
M.: Ogni coscienza è limitata e perciò dolorosa. Alla radice della coscienza c'è il desiderio, la spinta all'esperienza.
I.: Volete dire che senza il desiderio non può esserci coscienza? E qual è il vantaggio di essere senza coscienza? Se devo rinunciare al piacere per la libertà dal dolore, preferisco tenermeli.
M.: Al di là del dolore e del piacere c'è la beatitudine.
I.: Una beatitudine senza coscienza, a che mi serve?
M.: Né cosciente, né incosciente. Reale.
I.: Che cosa avete da obiettare alla coscienza?
M.: È un carico. Corpo significa peso. Sensazioni, desideri, pensieri: sono tutti pesi. La coscienza è sempre del conflitto(3).
I.: Vero essere, pura coscienza, infinita beatitudine, sono descrizioni equivalenti della realtà. Che c'entra con esse il dolore?
M.: Il dolore e il piacere accadono, ma il dolore è il prezzo del piacere, e questo è la ricompensa del dolore. Anche nella vita spesso dai piacere facendo del male, e procuri male, dando piacere. Sapere che dolore e piacere sono tutt'uno, è pace.
I.: Interessante, senza dubbio, ma il mio obiettivo è molto semplice. Nella vita voglio più piacere e meno dolore. Che devo fare?
M.: Finché c'è la coscienza, dolore e piacere sono inevitabili. L'"io sono", installato nella coscienza, tende naturalmente a identificarsi con gli opposti.
I.: Allora non vedo a che mi serva. Non mi soddisfa.
M.: E tu chi sei, chi è l'insoddisfatto?
I.: Sono l'uomo del dolore-piacere.
M.: Tutt'e due sono beatitudine (ananda). Sto seduto di fronte a te e ti parlo della mia esperienza immediata e immutevole: il dolore e il piacere sono le creste e gli avvallamenti delle onde nell'oceano della beatitudine. Al fondo c'è la pienezza assoluta.
I.: La vostra esperienza è costante?
M.: È senza tempo e immutabile.
I.: Io conosco soltanto il desiderio del piacere e la paura del dolore.
M.: Questo è ciò che pensi di te. Desisti. E se non riesci a interrompere l'abitudine tutta in una volta, esamina il tuo modo ordinario di pensare, e vedine la falsità. Mettere in discussione ciò che è abituale, è il dovere della mente. Ciò che la mente ha creato, la mente deve distruggere. Oppure convinciti che non c'è desiderio fuori della mente, e stanne fuori.
I.: Onestamente, non ho fiducia in questo ridurre tutto a un fatto mentale. La mente, al pari dell'occhio, è solo uno strumento. Potete sostenere che la percezione è una creazione? Vedo il mondo dalla finestra, non nella finestra. Tutto quello che dite si regge sul presupposto che esista una base comune, ma ignoro se sia reale o no. Posso solo averne un'immagine mentale. Che senso abbia per voi, proprio non so.
M.: Finché sei installato nella mente, non puoi che vedermi nella mente.
I.: Come sono inadeguate alla comprensione le parole!
M.: Senza parole, che altro c'è per capire? Il bisogno di comprendere sorge dall'incomprensione. Quello che dico è vero, ma per te è solo teorico. Come arrivi a capire che è vero? Ascolta, ricorda, pondera, visualizza, esperimenta. Applicalo anche nella vita quotidiana. Sii paziente con me e, soprattutto, con te, perché tu sei l'unico ostacolo. La via ti attraversa e ti oltrepassa. Finché ritieni che solo il particolare sia reale, cosciente e felice, e respingi la realtà indivisa come qualcosa di astratto e immaginato, crederai che sia io a manipolare concetti e astrazioni. Basterà che tu tocchi la realtà dentro di te, e scoprirai che non faccio che descrivere ciò che ti è vicinissimo e diletto(4).



Tratto da Io sono Quello
Rizzoli Editore - Milano 1981, 82
Introdotto, curato e tradotto da Grazia Marchianò
Riprodotto su autorizzazione

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