97. 1 Aprile 1972
I.: Vedo qui i ritratti di parecchi santi, i vostri antenati spirituali. Chi sono e come cominciò tutto?
M.: Ci chiamano globalmente "I nove". Dice la leggenda che il nostro primo maestro fu il Rishi Dattatreya, la grande incarnazione della Trinità Brahma-Vishnu-Shiva. Anche i "nove" (navnath) sono mitici.
I.: Qual è la caratteristica del loro insegnamento?
M.: La semplicità, in teoria e in pratica.
I.: Come si diventa uno dei navnath? Per iniziazione o successione?
M.: Né in un modo, né nell'altro. Il "retaggio dei nove" (navnath parampara) è come un fiume; fluisce nell'oceano della realtà e trascina chiunque vi entri.
I.: Ciò implica l'accettazione da parte di un maestro vivente, che appartiene alla medesima tradizione?
M.: Quelli che praticano la disciplina, mettendo a fuoco la mente sull'"io sono", possono sentirsi collegati ad altri che lo hanno seguito efficacemente, e decidere di legittimare a parole la loro colleganza, chiamandosi navnath. Ciò dà loro il piacere di appartenere a una tradizione stabilita.
I.: Traggono dei benefici dall'unione?
M.: Il circolo del satsang, la "compagnia spirituale", col tempo si espande.
I.: Ricevono un potere e una grazia particolari?
M.: Il potere e la grazia sono per tutti, basta chiederli. Non serve darsi un nome particolare. Comunque ti chiami, se sei intensamente memore di te stesso, presto o tardi otterrai l'autocoscienza.
I.: Se accetto la vostra guida, diventerò un affiliato al navnath?
M.: Se ci tieni alle parole, fàllo! Ma il nome non ti cambia. Nel caso migliore potrà rammentarti di comportarti bene. C'è una successione di maestri e discepoli, che a loro volta ne allenano altri. Ma la continuità della tradizione è informale e volontaria. È come un cognome, solo che qui la famiglia è spirituale.
I.: Si deve essere realizzati per appartenere al sampradaya?
M.: Il navnath sampradaya tramanda un insegnamento e una pratica. Non denota un livello di coscienza. Se accetti come maestro uno del navnath sampradaya, ne fai parte. Di solito ricevi un pegno della sua grazia: uno sguardo, un colpetto o una parola, talvolta un vivido sogno o un ricordo tenace. Altre volte, l'unico segno della grazia è un cambiamento significativo e rapido nel carattere e nel comportamento.
I.: Vi conosco da qualche anno e vi vedo regolarmente. Penso sempre a voi. Appartengo per questo al vostro sampradava?
M.: Dipende se lo senti, e ne sei persuaso. Il resto sono formule e parole. Nella realtà non ci sono né maestri né discepoli, né teoria né pratica, né ignoranza né realizzazione. Dipende da chi credi di essere. Conosciti correttamente. Non c'è altro modo.
I.: Che prove avrò della mia autoconoscenza?
M.: Non occorrono prove. L'esperienza è unica e inconfondibile. Ti apparirà all'improvviso, quando certi ostacoli saranno rimossi. È come una fune consunta che si spezza di colpo. A te tocca lavorare sulla fune. La rottura è inevitabile. Puoi solo dilazionarla per un po'.
I.: Sono molto perplesso perché negate la causalità. Significa che nessuno è responsabile di come è fatto il mondo?
M.: L'idea di responsabilità è nella tua mente. Pensi che debba esserci qualcosa o qualcuno da cui dipenda ciò che avviene. C'è contraddizione fra un universo molteplice e una causa singola. O è falso uno dei due, o ambedue. Per me, tutto è un sogno a occhi aperti. Non c'è realtà nelle idee. Il fatto è che, senza di te, né l'universo né la sua causa avrebbero potuto venire alla luce.
I.: Ci terrei a capire se io sono la creatura o il creatore dell'universo.
M.: L'"io sono" è un fatto, onnipresente; "io sono creato", è solo un'idea. Né Dio, né l'universo sono venuti a dirti di averti creato. La mente è ossessionata dall'idea di causalità, perciò inventa una creazione e poi domanda: "Chi è il creatore?". Ma è la mente stessa; e anche questo non è del tutto vero, perché creato e creatore sono tutt'uno. La mente e il mondo non sono separati. Come non ti accorgi che, ciò che pensi essere il mondo, è la tua mente?
I.: C'è un mondo oltre o fuori della mente?
M.: Spazio e tempo sono mentali. Sapresti situare il mondo al di là della mente? La mente ha molti livelli, e ognuno proietta la sua versione; ma tutti le appartengono e sono creati da essa.
I.: Quali sono le vostre idee sul peccato? Come considerate colui che infrange una legge, interna o esterna? Desiderate che si emendi, vi limitate a commiserarlo, o siete giusto indifferente?
M.: Non conosco il peccato o il peccatore: è una distinzione e una valutazione che non mi lega. Ciascuno si comporta secondo la sua natura. È inevitabile, né occorre rammaricarsene(1).
I.: Ma gli altri soffrono.
M.: La vita vive della vita. In natura il processo è coercitivo, nella società dovrebbe essere volontario. Una vita senza sacrificio non può esistere. Il peccatore rifiuta il sacrificio, e attira la morte. È così, e non c'è motivo di condanna o di pietà.
I.: Proverete almeno compassione per un uomo immerso nel peccato.
M.: Sento che quell'uomo sono io, e i suoi peccati sono i miei.
I.: Va bene, e poi?
M.: Diventiamo la stessa persona. Non che lo voglia, avviene completamente da sé. Né lui né io possiamo farci niente. Ciò che deve cambiare, cambierà in ogni caso; basta conoscersi come si è, qui, ora. L'indagine intensa e metodica della propria mente è yoga.
I.: E le catene del destino forgiate dal peccato?
M.: Quando svanisce l'ignoranza, che è la madre del peccato, il destino, la costrizione a peccare di nuovo, s'arresta.
I.: Ci sono dei castighi da pagare.
M.: Tutto termina con la fine dell'ignoranza. A quel punto le cose sono viste come sono, e sono buone.
I.: Se viene da voi un peccatore, uno che ha infranto la legge, e chiede la vostra grazia, che cosa gli risponderete?
M.: Otterrà ciò che ha chiesto(2).
I.: Benché sia un uomo molto cattivo?
M.: Non conosco gente cattiva. Conosco solo me stesso. Non vedo né santi né peccatori, solo esseri viventi. Non dispenso grazie. Non c'è nulla che possa dare o negare che tu non abbia già in ugual misura. Sii solo consapevole delle tue ricchezze, e usale in pieno. Finché immagini di aver bisogno della mia grazia, starai alla mia porta a mendicarla.
Sarebbe ugualmente insensato se fossi io a mendicarla da te! Non siamo separati, il reale è comune.
I.: Viene da voi una madre con un racconto di sventure. Il suo unico figlio si è dato al sesso e alla droga, e va di male in peggio. Chiede aiuto. Che cosa le direte?
M.: Probabilmente mi ascolterò dirle che andrà tutto bene.
I.: Tutto qui?
M.: Che ti aspetti di più?
I.: Ma il figlio della donna cambierà?
M.: Forse sì, forse no.
I.: La gente che si raccoglie intorno a voi, e che vi conosce da molti anni, sostiene che quando dite "andrà tutto bene", invariabilmente succede così.
M.: Puoi anche dire che è il cuore della madre, che ha salvato il figlio. Per ogni cosa ci sono innumerevoli cause.
I.: Mi è stato detto che l'uomo che non vuole nulla per sé, è onnipotente. L'universo è a sua disposizione.
M.: Se lo credi, agisci in conseguenza. Abbandona ogni desiderio personale, e usa il potere così risparmiato per cambiare il mondo.
I.: Tutti i Buddha e i rishi non ci sono riusciti.
M.: Il mondo non si arrende al cambiamento. Per sua natura è doloroso e fugace. Vedilo com'è, e distogliti da ogni desiderio e paura. Quando il mondo non ha più presa su di te e non ti vincola, diventa una dimora di gioia e bellezza. Puoi essere felice nel mondo solo se te ne liberi(3).
I.: Che cos'è giusto e che cosa sbagliato?
M.: In genere, ciò che causa sofferenza è sbagliato, e ciò che la rimuove, giusto. Il corpo e la mente sono limitati, e perciò vulnerabili; cercano la protezione che ingenera la paura. Finché ti identifichi col corpo-mente, non puoi non soffrire; realizza la tua indipendenza e conservati felice. Dopotutto, è questo il segreto della felicità. Non ti conosci se presumi che la felicità dipenda dalle cose e dalle persone; sapere che non ti occorre nulla per essere felice eccetto la conoscenza di te, è saggezza.
I.: Che cosa viene prima, l'essere o il desiderio?
M.: Quando l'essere sorge alla coscienza, l'idea di ciò che sei affiora alla mente, insieme a quella di ciò che dovresti essere. Questo porta con sé desiderio e azione, e il processo del divenire ha inizio. Il divenire non ha, apparentemente, né principio né fine, perché ricomincia a ogni istante. Con l'arresto dell'immaginazione e del desiderio, il divenire cessa, e l'essere "questo" o "quello" si amalgama nell'essere indifferenziato, che non è descrivibile, solo sperimentabile.
Il mondo ti appare imperiosamente reale, perché ci pensi in continuazione; ignoralo, e si dissolverà in una nebbia sottile. Non occorre l'oblio; quando cessano il desiderio e la paura, si estingue anche la schiavitù. La sua causa è il coinvolgimento emotivo, il sistema di simpatie e antipatie che fanno il cosiddetto carattere e il temperamento.
I.: Senza il desiderio e la paura, che motivo ci sarebbe di agire?
M.: Nessuno, a meno che non ti basti l'amore per la vita, la giustizia, la bellezza(4).
Non temere la libertà dal desiderio e dalla paura. Ti consente di vivere una vita così diversa, talmente più intensa e interessante, che in verità perdendo tutto guadagni tutto.
I.: Se la vostra ascendenza spirituale risale al rishi Dattatreya, i vostri predecessori e voi stesso siete sue reincarnazioni?
M.: Credilo, se vuoi; e se agisci in base alla fede, ne otterrai i frutti; per me ciò non ha alcuna importanza. Sono ciò che sono e mi basta. Non desidero identificarmi con nessuno, per illustre che sia. Né sento il bisogno di scambiare dei miti per la realtà. Mi interessa solo l'ignoranza e il modo di estinguerla. Il giusto ruolo di un maestro è quello di disperdere l'ignoranza nel cuore e nella mente dei discepoli. Quando il discepolo ha compreso, l'azione vidimante tocca a lui. Nessuno può agire per un altro. E se non lo fa rettamente, significa che non ha capito e che l'opera del maestro non è esaurita.
I.: Ci saranno pure dei casi senza speranza?
M.: Nessun caso è senza speranza. Gli ostacoli si rimuovono. A ciò cui la vita non può rimediare, pensa la morte, ma il maestro non fallisce.
I.: Che cosa ve lo fa credere?
M.: Il maestro e la realtà interiore dell'uomo sono in verità tutt'uno, e cooperano al medesimo scopo: la redenzione e la salvezza della mente. Costruiscono i loro ponti con le stesse pietre che bloccano il cammino. La coscienza non è la totalità dell'essere; ci sono altri livelli nei quali l'uomo interviene con maggiore efficacia. Il maestro è a suo agio in tutti i livelli, e la sua energia e pazienza sono inesauribili.
I.: Continuate a sostenere che sono in un sogno, e che è tempo che mi svegli. Come mai il Maharaj che mi è apparso in sogno, non ce l'ha fatta a svegliarmi? Mi stimola, mi riscuote, ma il sogno continua.
M.: Perché non hai veramente capito che stai sognando. Questa è l'essenza della schiavitù: mischiare il reale con l'irreale. Nello stato in cui sei, solo l'"io sono" si riferisce alla realtà; il "chi" e il "come sono" sono illusioni imposte dal destino o dall'evenienza.
I.: Il sogno quando è incominciato?
M.: Si direbbe senza inizio, di fatto, è ora. Lo rinnovi di momento in momento. Quando ti vedrai addormentato, ti sveglierai. Ma non puoi accorgertene, perché vuoi che il sogno continui. Verrà un giorno in cui aspirerai con tutto il cuore alla fine del sogno, e sarai pronto a pagare il massimo prezzo, ossia l'imparzialità, il distacco e il disinteresse al sogno stesso.
I.: Come sono impotente! Finché il sogno dell'esistenza dura, desidero che continui. Finché lo desidero, durerà.
M.: Non è inevitabile volere che continui. Apri gli occhi sulla tua condizione, e la chiarezza stessa ti libererà.
I.: Finché vi sto accanto, tutto ciò che dite sembra ovvio; appena mi allontano, divento irrequieto e ansioso.
M.: Non è necessario che ti allontani da me, almeno mentalmente. Ma già, dimenticavo che la tua mente è troppo tesa al benessere del mondo!
I.: Il mondo trabocca di guai, niente di strano che anche la mia mente ne sia piena.
M.: C'è mai stato un mondo senza guai? Se esisti come persona, è grazie alle violenze inflitte ad altri. Il tuo stesso corpo è un campo di battaglia disseminato di morti e moribondi. L'esistenza implica violenza.
I.: Per il corpo, sì. Per l'essere umano, sicuramente no. Per l'umanità, la non-violenza è la legge della vita, e la violenza quella della morte.
M.: In natura di non-violenza ce n'è poca.
I.: Dio e la natura non sono umani, e non hanno bisogno di esserlo. A me interessa solo l'uomo. Per essere umano, devo assolutamente avere compassione.
M.: Ti rendi conto che, finché hai un sé da difendere, devi essere violento?
I.: Per essere umano devo essere altruista. Finché sono egoista, sono al disotto, un umanoide.
M.: Allora, siamo tutti al disotto, tranne pochi veramente umani. E comunque, "chiarezza e carità" sono le leve che ci fanno umani. I subumani - gli "umanoidi" - sono dominati da tamas e rajas, gli umani dal sattva. La chiarezza e la carità sono qualità "sattviche" perché influenzano la mente e l'azione. Ma la realtà è oltre il sattva. Da quando ti conosco, non fai che preoccuparti di aiutare il mondo. Quanto l'hai aiutato?
I.: Nemmeno un po'. Il mondo non è cambiato, e io neppure. Ma il mondo soffre e io con esso. Lottare contro la sofferenza, è una reazione naturale. E che cosa sono civiltà e cultura, filosofia e religione, se non una rivolta contro la sofferenza? Il male e l'estinzione del male non è la vostra prima preoccupazione? E anche se lo chiamate ignoranza, alla fin fine è lo stesso.
M.: Le parole non contano. Nomi e forme cambiano incessantemente. Sappi di essere il testimone immutabile della mente che muta. Questo è sufficiente.
Tratto da Io sono Quello
Rizzoli Editore - Milano 1981, 82
Introdotto, curato e tradotto da Grazia Marchianò
Riprodotto su autorizzazione
(MP, cap. 16) Quest'Anima non prova disagio per i suoi peccati, né per la sofferenza che Dio possa aver sofferto per lei, né per i peccati del suo prossimo.
Vedi Eckhart:
(E2 a pag. 12) Volendo Dio in qualche modo che io abbia commesso dei peccati, non devo voler non averli commessi, perché è così che la volontà di Dio è fatta in terra - cioè nella colpa - come in cielo - cioè nel bene compiuto -.
(MP, cap. 16) Se quest'Anima potesse aiutare il suo prossimo, lo aiuterebbe con tutte le sue forze.
(MP, cap. 44) Quest'anima ha chiuso col mondo e il mondo ha preso congedo da lei.
(E8, num. 98) Il questo e il quello costituisce il laccio per cui uno non è libero, ma prigioniero. Infatti non compie il bene per amore del bene - non lo compie senza perché -, ma serve a questo o a quello per questo o quel motivo, ed è perciò un mercenario, un servo, non un figlio del bene, giacché non agisce per amore del bene.