Nisargadatta Maharaj
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91. 19 Febbraio 1972




I.: A un mio giovane amico, un uomo di circa venticinque anni, è stato detto che soffre di un'incurabile malattia di cuore. Mi ha scritto che a una morte lenta preferisce il suicidio. Gli ho risposto che una malattia incurabile secondo la medicina occidentale, si può affrontare in qualche altro modo. Nello yoga ci sono dei poteri che inducono cambiamenti repentini nel corpo. Anche gli effetti del digiuno protratto hanno del miracoloso. Ho scritto al mio amico di non aver fretta di morire; piuttosto, di tentare altre strade.
So di uno yoghi che vive non lontano da Bombay, ed è dotato di poteri miracolosi. La sua specialità è il controllo delle forze vitali che presidiano il corpo. Ho affidato ad alcuni suoi discepoli la lettera del mio amico con la sua fotografia. Stiamo a vedere che succede.
M.: Sì, dei miracoli son sempre possibili. Ma dev'esserci il desiderio di vivere. Altrimenti il miracolo non avviene.
I.: Si può instillare il desiderio?
M.: A un livello superficiale, sì. Ma non dura. Fondamentalmente, nessuno può costringere un altro a vivere. Inoltre, ci sono state delle culture in cui il suicidio ha avuto il suo posto riconosciuto e rispettato.
I.: Non è obbligatorio vivere la propria porzione naturale di vita?
M.: Quando è facile e spontaneo, sì. Ma la malattia e il dolore non sono naturali. C'è una nobile virtù nell'incrollabile accettazione di qualunque cosa accada, ma c'è anche una dignità nel rifiuto del tormento fine a se stesso, e dell'umiliazione.
I.: Mi è stato dato un libro in cui un realizzato descrive molte sue strane e sorprendenti esperienze. La via dell'apprendista cesserebbe, secondo lui, nel momento in cui il futuro realizzato incontra il maestro e gli si arrende, corpo, mente e cuore. A quel punto, il maestro diventa totalmente responsabile della vita del discepolo; in un certo senso gli si sostituisce finché diventano tutt'uno. L'identificazione è la chiave di volta in questo tipo di realizzazione. Sopraffatto da un potere irresistibile e incontrollabile, il discepolo si sente indifeso come una foglia nella tempesta. L'unica cosa che lo salva dalla follia e dalla morte è la fede nell'amore e nel potere del maestro.
M.: Ognuno insegna per l'esperienza che ha. L'esperienza è modellata sulla fede e questa sull'esperienza. Anche il maestro è modellato dal discepolo a sua immagine. È il discepolo che fa grande il maestro. Quando si constata che il maestro è l'agente di un potere liberatorio, attivo sia all'interno che all'esterno, diventa semplice e naturale arrenderglisi con tutto il cuore. Come un uomo assalito dal male si rimette completamente al chirurgo, così il discepolo al maestro, senza riserve. È naturale chiedere aiuto quando non se ne può fare a meno; ma per potente che sia, il maestro non imporrà mai la sua volontà. Un discepolo riluttante e incredulo, è destinato a restare incompiuto, e non per colpa del maestro.
I.: Che succede a questo punto?
M.: La vita insegna dove tutto il resto fallisce(1). Ma le lezioni della vita ci mettono molto a venire. Con la fiducia e l'obbedienza tanti ritardi e fastidi sono evitati, solo quando l'indifferenza e l'inquietudine cedono il posto alla chiarezza e alla pace. Un uomo che abbia poca stima di sé, non saprà confidare in nessun altro. Per questo, all'inizio, il maestro fa di tutto per rassicurare il discepolo sulla nobiltà della sua origine, natura e destino. Gli racconta le esperienze di molti santi e le proprie - dalla miseria degli esordi al fulgore finale -, per inculcargli la fiducia in se stesso e nelle sue possibilità. Quando le due fiducie subentrano insieme, i cambiamenti nel carattere e nella vita possono essere rapidissimi e d'immensa portata.
I.: Può darsi che io non voglia cambiare. La mia vita mi va bene com'è.
M.: Lo dici perché non sai quant'è dolorosa la vita che vivi. Sei come un bambino che dorme con un lecca-lecca in bocca. Per un attimo potrai sentirti felice, perché sei totalmente estraniato, ma basta dare un'occhiata ai volti della gente per percepire l'universalità del dolore. La tua stessa felicità è vulnerabile ed effimera, alla mercé di una bancarotta o di un'ulcera allo stomaco. È un istante di tregua, un mero intervallo fra due sofferenze. La vera felicità è invulnerabile, perché non dipende dalle circostanze.
I.: Parlate per esperienza personale? Anche voi siete infelice?
M.: Non ho problemi personali. Ma il mondo è pieno di creature le cui vite sono strette fra la paura e lo struggimento. Sono come i capretti e gli agnelli condotti al macello, che saltano e zampettano ignari, e nel giro di un'ora, saranno uccisi e scuoiati.
Dici di essere felice. Lo sei davvero, o tenti semplicemente di autoconvincerti? Ossèrvati senza paura, e vedrai che la tua felicità dipende dalle circostanze, e perciò è momentanea e irreale. La vera felicità fluisce dall'interno.
I.: A che mi serve la vostra felicità? Non mi rende felice.
M.: Puoi averla tutta intera, basta chiederla. Ma non lo fai.
I.: Perché dite così, la chiedo e come!
M.: I piaceri che hai, ti soddisfano. Per la felicità non c'è spazio. Vuota la tazza e lavala, se vuoi riempirla ancora(2). Gli altri possono darti il piacere, mai la felicità.
I.: Una serie di fatti piacevoli è già abbastanza.
M.: Ma presto si volge in dolore, se non in un vero disastro. Che cos'è lo yoga, dopotutto, se non il cercare una stabile felicità all'interno?
I.: Per l'Oriente sarà così, ma in Occidente la situazione è molto diversa.
M.: Di fronte al dolore e alla paura, non c'è Oriente o Occidente. È un problema universale: il dolore e la fine del dolore. La causa del dolore è la dipendenza, il rimedio è l'indipendenza. Lo yoga è la scienza e l'arte dell'autoliberazione attraverso la comprensione di sé.
I.: Non penso di essere adatto allo yoga.
M.: E per che altro sei tagliato? Tutto il tuo andirivieni, la ricerca del piacere e di un significato, l'investimento in amore e odio, mostrano che lotti contro ogni sorta di limitazioni, interne ed esterne. Nella tua ignoranza, sbagli, infliggi sofferenze a te e agli altri, ma la spinta innegabilmente c'è, ed è unica, sia che tenda alla nascita, all'appagamento e alla morte, o alla comprensione e alla liberazione. È come un tizzone in una nave che trasporta cotone. Puoi anche non sapere che c'è, ma presto o tardi la nave brucerà. La liberazione è un processo naturale e alla lunga inevitabile. Ma è in tuo potere attuarlo adesso.
I.: Allora perché son così pochi i liberati nel mondo?
M.: In una foresta, solo una minima parte degli alberi è in piena crescita a un dato momento, eppure ciascuno avrà il suo turno.
Presto o tardi le tue risorse fisiche e mentali si esauriranno. Che farai? Disperarti? Va bene, ma presto ne avrai abbastanza, e comincerai a porti delle domande. A quel punto sarai pronto per uno yoga consapevole.
I.: Tutto questo arrovellarsi e rimuginare, lo trovo molto innaturale.
M.: La tua è la naturalezza di uno che sia nato deforme. L'esserne ignaro non ti rende normale. Che significhi essere naturale o normale non lo sai, né sai di non sapere.
Stai andando pericolosamente alla deriva, e a chi si lascia trascinare dalla corrente può succedere di tutto in ogni momento. Sarebbe meglio che ti svegliassi e vedessi la situazione. Sai di essere, ma non sai chi sei. Scoprilo.
I.: Perché c'è tanta sofferenza ovunque?
M.: La causa della sofferenza è una sola. L'egoismo.
I.: Capisco che la sofferenza è implicita nella limitazione.
M.: Non sono le differenze o le distinzioni, le cause del dolore. L'unità nella diversità è giusta e buona(3). Ma è solo con la separazione e l'egoismo che appare nel mondo la vera sofferenza.



Tratto da Io sono Quello
Rizzoli Editore - Milano 1981, 82
Introdotto, curato e tradotto da Grazia Marchianò
Riprodotto su autorizzazione


Vedi Eckhart:
(E2 a pag. 184) Chi non conoscesse altro che le creature, non avrebbe mai bisogno di pensare ad una predica, perché ogni creatura è piena di Dio, ed è un libro.
Vedi Eckhart:
(E2 a pag. 116) Quando voglio scrivere in una tavoletta di cera, per quanto nobile sia ciò che è scritto sulla tavoletta, ciò non può fare a meno di ostacolarmi, in modo tale che non posso scrivervi, e se tuttavia io voglio scrivervi, occorre che cancelli quel che sta sulla tavoletta. Essa non è mai tanto pronta alla scrittura come quando non v'è niente su di essa. Nello stesso modo, se Dio deve scrivere nel mio cuore secondo la maniera più elevata, bisogna che dal cuore esca tutto quel che può chiamarsi questo o quello, e tale è il cuore distaccato.
Vedi Eckhart:
(E8, num. 199) La diversità delle parti non costituisce ostacolo per l'unità e la pace della totalità, che non sarebbe in quanto tale e non sarebbe totalità, se non vi fossero parti diverse e quasi avverse.