Nisargadatta Maharaj
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90. 5 Febbraio 1972




I.: Sono americana e ho trascorso più di un anno nell'ashram di Ramana Maharshi; ora sto tornando a casa, dove mi aspetta mia madre.
M.: Che progetti hai?
I.: Diplomarmi da infermiera, o giusto sposarmi e avere dei bambini.
M.: Che cosa ti spinge a sposarti?
I.: Secondo me, la più alta forma di servizio è impiantare una casa spirituale. È ovvio che la vita può andare altrimenti. Io sono pronta ad accettarla come viene.
M.: Come sono stati questi mesi nell'ashram? Ti senti cambiata?
I.: Non ho più paura. Ho trovato una certa pace.
M.: Quella che deriva dall'avere ciò che vuoi, o dal non volere ciò che non hai?
I.: Un po' dell'una e un po' dell'altra. Ma non è stato facile. L'ashram è un luogo di pace, ma dentro di me era una tortura.
M.: Quando comprendi che la distinzione fra dentro e fuori è solo nella mente, non hai più paura.
I.: Ne sono convinta a tratti. Non ho ancora raggiunto l'immutabilità della completezza assoluta.
M.: Finché credi nelle falsa idea di essere incompleta, dovrai continuare il tuo sadhana, che ti aiuta a rimuovere le sovrapposizioni. Quando ti vedrai come un puntolino nello spazio-tempo, troppo infinitesimale ed effimero per essere eliminato, allora, e solo allora, tutti i timori svaniranno. Quando sei più minuscola della punta di un ago, l'ago non può pungerti: sei tu che lo pungi!
I.: Sì, è così che mi sento, a volte: impavida. E anche di più: come se fossi l'impavidità in persona.
M.: Che cosa ti ha spinto a entrare nell'ashram?
I.: Ho avuto una storia d'amore infelice e ho sofferto l'inferno. Né il bere né le droghe potevano aiutarmi. Andavo a tentoni, e m'imbattei in certi libri di yoga. Da un libro all'altro - da un indizio all'altro - sono arrivata al Ramanashram.
M.: Se ora ti capitasse la stessa storia infelice, pensi che soffriresti tanto?
I.: Oh no, m'impedirei di sopportarlo. Piuttosto mi ucciderei.
M.: Dunque, non hai paura della morte!
I.: Non della morte, ma di morire. Immagino che sia un'esperienza dolorosa e brutta.
M.: Che ne sai? Potrebbe anche essere bella e piacevole. Quando sai che la morte tocca al corpo e non a te, ti limiti a osservare come esso ti cada di dosso via via, come un abito smesso.
I.: So molto bene che la mia paura della morte è legata a un'inquietudine estranea alla conoscenza.
M.: Gli uomini muoiono di momento in momento, la paura e gli spasimi della morte incombono sul mondo come una spessa nuvola. Niente di strano che anche tu abbia paura. Ma quando sai che solo il corpo muore, e non la continuità della memoria in cui è riflesso l'"io sono", la paura svanisce.
I.: Allora moriamo, e stiamo a vedere.
M.: Se fai attenzione, scopri che la nascita e la morte rientrano in un processo unitario in cui ognuna ha bisogno dell'altra, mentre la vita pulsa fra l'essere e il non-essere. Sei nata per morire e muori per rinascere.
I.: Ma il distacco non ferma il processo?
M.: Con il distacco scompare la paura, non il fatto.
I.: Sarò costretta a rinascere? Tremendo!
M.: Non c'è nessuna costrizione. Si ha quel che si vuole. Fai i tuoi piani e li svolgi.
I.: Soffriamo per causa nostra?
M.: La ricerca ci fa crescere, ma per cercare ci vuole esperienza. Tendiamo a ripetere quello che non abbiamo capito. Se siamo sensibili e intelligenti, non occorre che soffriamo. Il dolore è una richiesta di attenzione, e una punizione dell'idiozia. L'azione intelligente e compassionevole è l'unico rimedio.
I.: Ora che sono diventata più intelligente, non tollererei più di soffrire. Che male c'è nel suicidio?
M.: Nessuno, ma solo se risolve il problema. Ad esempio, quando la sofferenza sia imposta da cause esterne come una malattia incurabile, o una calamità insostenibile. Ma dove mancano saggezza e compassione, il suicidio è inutile. Una morte folle è una follia rinata. C'è poi da valutare la questione del karma. La tolleranza è di solito l'atteggiamento più saggio.
I.: Bisogna sopportare il dolore anche quando è immenso e senza speranza?
M.: La sopportazione è una cosa, l'angoscia impotente un'altra. L'una ha significato e dà frutti, mentre l'altra è sterile.
I.: Perché occuparsi del karma, se bada a se stesso, in ogni modo?
M.: Buona parte del nostro karma è collettivo. Soffriamo per i peccati degli altri come gli altri per i nostri. L'umanità è unica. Ignorarlo, non cambia il fatto. Potremmo essere molto più felici se non fosse per l'indifferenza ai dolori altrui.
I.: Mi sembra di essere diventata molto più sensibile.
M.: Chi hai in mente nel dirlo? Te, come persona sensibile in un corpo femminile?
I.: C'è un corpo, c'è la compassione, la memoria e una quantità di aspetti e tendenze; complessivamente fanno la persona.
M.: E l'"io sono"?
I.: L'"io sono" è il cestino che raccoglie i pezzi che fanno la persona.
M.: O, piuttosto, è la paglia con cui è intrecciato. Quando pensi a te come donna, intendi che sei una donna o che il tuo corpo è femminile?
I.: Dipende da come sto. A volte mi sento un puro centro di consapevolezza.
M.: O un oceano di consapevolezza. Ma ci sono dei momenti in cui non ti senti né uomo né donna, la creatura condizionata e accidentale che sei normalmente?
I.: Sì, ci sono, ma mi vergogno di parlarne.
M.: Un accenno è tutto ciò che ci si può aspettare. Non occorre che tu dica di più.
I.: Posso fumare in vostra presenza? So che non sta bene fumare davanti a un saggio, soprattutto per una donna.
M.: Per carità, fuma, nessuno ci farà caso. Si può capire.
I.: Ho bisogno di calmarmi.
M.: Capita spesso agli Occidentali. Dopo un sadhana faticoso, si caricano di energia e cercano una valvola di sfogo. Frenetici, organizzano comunità, insegnano yoga, si sposano, scrivono libri, tutto fanno, fuorché starsene quieti e rivolgere le energie all'interno, alla fonte inesauribile, e imparare a controllarle.
I.: È vero, ho voglia di tornare a casa, e di gettarmi in mille attività.
M.: Fa' come senti, ma bada a non identificarti mai col corpo e la mente. Non che tu debba rinunciare al corpo e alle sue esigenze; ma, visto che non sei il corpo, fatti da parte, distaccati, impedisci alle emozioni di avere presa su di te.
I.: Capisco quel che dite. Circa quattro anni fa ho attraversato un periodo di rigetto del fisico: smisi di comprarmi dei vestiti, mangiavo nel modo più frugale, dormivo su assi nude. È l'accettazione delle privazioni che conta, non la reale mancanza di comodità. Ora ho capito che accettare con gioia la vita come viene, e amare tutto ciò che offre, è la cosa migliore. Accoglierò tutto con animo lieto, e cercherò di trarne il meglio. Se non potrò far niente di più che generare ed educare qualche figlio, mi accontento; sebbene il mio cuore straveda per ogni bambino, non posso raggiungerli tutti.
M.: Sei moglie e madre solo quando sei cosciente del maschile-femminile unificati. Se non t'identifichi col corpo, la sua vita fisica può anche assorbirti e farti felice, ma ti appare come uno spettacolo sullo schermo della mente, e non hai dubbi che l'unica realtà sia la luce della consapevolezza.
I.: Perché insistete sulla consapevolezza come unica realtà? Non è altrettanto reale l'oggetto della consapevolezza, finché dura?
M.: Ma non dura! La realtà momentanea è secondaria; dipende dal senza-tempo.
I.: Volete dire: continuo o permanente?
M.: Non può esserci continuità nell'esistenza. La continuità implica identità nel passato, presente e futuro. Nessuna identità del genere è possibile, perché gli stessi mezzi di identificazione fluttuano e cambiano. La continuità, la permanenza, sono illusioni create dalla memoria, mere proiezioni mentali di un modello dove nessun modello è possibile. Se abbandoni ogni idea di corpo o mente, di uomo o donna, temporanei o permanenti: che cosa resta? Qual è lo stato della mente quando ogni separazione è abolita? Non dico le distinzioni, perché senza di esse non può darsi manifestazione.
I.: Quando non separo, sono felice e in pace. Ma dopo un po' mi smarrisco di nuovo, e riprendo a cercare la felicità nelle cose esterne. Perché la mia pace interiore non sia salda, non riesco a capirlo.
M.: Dopo tutto, anche la pace è una condizione della mente.
I.: Oltre la mente c'è il silenzio, su cui niente si può dire.
M.: Sì, ogni chiacchiera sul silenzio è puro rumore.
I.: Perché cerchiamo la felicità mondana anche dopo aver gustato la spontanea felicità naturale?
M.: Quando la mente è intenta a servire il corpo, la felicità scompare. Per riguadagnarla, la mente cerca il piacere. Il bisogno di felicità è legittimo, ma i mezzi per assicurarsela sono ingannevoli, infidi, e distruggono la vera felicità.
I.: Il piacere è sempre un male?
M.: Lo stato normale del corpo e della mente, e il loro giusto uso, sono intensamente piacevoli. È la ricerca del piacere che è sbagliata. Non cercare di renderti felice, piuttosto metti sotto inchiesta la tua stessa ricerca della felicità. Scopri perché sei infelice. Non lo sei, e cerchi la felicità nel piacere, che introduce il dolore che chiami terreno; a questo punto brami un tipo diverso di piacere, senza dolore, che chiami divino. In realtà il piacere non è che una tregua dal dolore. La felicità è sia terrena che no, dentro e al di là di tutto ciò che accade. Non distinguere, non separare l'inseparabile, e non alienarti dalla vita.
I.: Ora sì che vi capisco! Prima del mio soggiorno nell'ashram di Ramana ero tiranneggiata dalla coscienza, e sempre intenta a giudicarmi. Ora sono rilassata, mi accetto come sono. Quando ritornerò negli Stati Uniti, prenderò la vita come viene, come una grazia di Bhagwan, e gusterò l'amaro con il dolce. Questa è una delle cose che ho imparato nell'ashram: confidare in Bhagwan. Non ero così, prima. Non avevo fiducia.
M.: Confidare in Bhagwan significa confidare in te. Convinciti che qualunque cosa accada, accade a te, da parte tua, attraverso di te, e che tu sei il creatore, il fruitore e il distruttore di tutto ciò che percepisci: la paura scomparirà. E senza paura, non sarai infelice, e non cercherai la felicità.
Sullo schermo della mente scorrono tanti film. Sai che sono fatti da te, e li osservi silenziosamente andare e venire. All'erta, ma senza turbamenti. Questo atteggiamento di osservazione silenziosa, è il cardine dello yoga. Vedi il film, non sei il film.
I.: Il pensiero della morte mi terrorizza perché non voglio rinascere. So che nessuno mi costringe, ma la pressione dei desideri insoddisfatti è fortissima, e può darsi che non ce la faccia a resistere.
M.: È un problema che non si pone. Ciò che è nato e rinasce, non sei tu. Lascia che accada, osservalo accadere.
I.: E perché occuparsene allora?
M.: Ma tu te ne occupi! E te ne occuperai finché il film striderà con il tuo senso della verità, dell'amore e della bellezza. Il desiderio di pace e armonia è inestirpabile. Una volta soddisfatto, cessi di preoccuparti, e la vita fisica si svolge senza sforzo e al di sotto dell'attenzione. Allora anche nel corpo, sei non nato. Essere incarnato o no, ti è indifferente. Raggiungi un punto nel quale nulla può capitarti. Senza corpo, non puoi essere ucciso; senza possessi, derubato; senza mente, ingannato. Non c'è un gancio al quale un desiderio o una paura si possano appendere. E finché sei sottratto al cambiamento, che altro mai conta?
I.: Per varie ragioni l'idea di morire non mi garba.
M.: Perché sei così giovane. Più ti conosci, meno temi. Certo, l'agonia della morte non è desiderabile, ma il moribondo è raramente cosciente.
I.: Ritorna alla coscienza?
M.: È uno stato molto simile al sonno. Per un po' la persona è sfocata e poi ritorna.
I.: La stessa persona?
M.: La persona è un prodotto delle circostanze, e cambia necessariamente con esse, come la fiamma con un diverso combustibile. Solo il processo continua, creando il tempo e lo spazio.
I.: Dio baderà a me. Lascio tutto nelle sue mani.
M.: Anche la fede in Dio è solo uno stadio lungo la via. Alla fine si abbandona tutto, perché si giunge a qualcosa di così semplice che non ci sono parole per esprimerlo.
I.: Sono appena all'inizio! Dapprima non avevo fede, né fiducia; temevo di accettare le cose come venivano. Il mondo mi sembrava un luogo ostile e pericoloso. Ora, almeno, posso dire di confidare nel maestro o in Dio. Lasciatemi crescere. Non fatemi fretta. Permettete che proceda alla mia velocità.
M.: Certo. Ma tu non procedi. Sei ancora legata all'idea di uomo e donna, giovane e vecchio, vita e morte. Va' oltre. Una cosa riconosciuta è una cosa trascesa.
I.: Ovunque vada, la gente si sente in dovere di esaminare i miei difetti e pungolarmi. Sono stufa di tutta questa storia del far fortuna spiritualmente. Che cosa non va nel mio presente, che dovrei sacrificare a un futuro, glorioso finché si vuole? Dite che la realtà è ora. Io amo il mio ora, lo voglio. Voglio smettere di agitarmi in eterno per la mia statura spirituale e il suo avvenire. Non voglio inseguire il più e il meglio. Lasciatemi amare ciò che ho.
M.: Hai ragione; fàllo. Solo, sii onesta: ama proprio ciò che ami; non darti da fare, non esautorarti.
I.: Questo per me significa arrendersi al maestro.
M.: Perché al maestro? È a te che devi arrenderti, perché tutto è una tua espressione.



Tratto da Io sono Quello
Rizzoli Editore - Milano 1981, 82
Introdotto, curato e tradotto da Grazia Marchianò
Riprodotto su autorizzazione