Nisargadatta Maharaj
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89. 29 Gennaio 1972




I.: Siamo due ragazze inglesi in visita in India. Sappiamo poco di yoga e siamo qui perché ci dicono che i maestri spirituali svolgono un ruolo importante nella vita indiana.
M.: Benvenute. Qui non troverete niente di nuovo. Ciò che facciamo è al di fuori del tempo, tale e quale diecimila anni fa, e fra diecimila anni. Passano i secoli, ma il problema umano non cambia: il dolore e la fine del dolore.
I.: L'altro giorno sono arrivati all'improvviso sette ragazzi stranieri che ci hanno chiesto asilo per qualche notte. Il loro maestro faceva una conferenza a Bombay ed erano venuti a incontrarlo. È un giovane uomo di bell'aspetto, dall'aria sveglia ed efficiente, con un'aura di pace e silenzio che gl'irradia intorno. La sua dottrina è tradizionale, nel solco del Karma Yoga: azione disinteressata, dedizione al maestro e via dicendo. Nello stile della Bhagavad Gita, predica che l'azione disinteressata si tramuta da se stessa in salvezza. I suoi piani sono ambiziosi: addestrare i migliori discepoli per aprire centri spirituali in molti paesi. Pare che darebbe loro non solo l'autorità, ma anche il potere di operare in suo nome.
M.: Sì, la trasmissione di potere esiste.
I.: Accanto a quei ragazzi, avevo la strana sensazione di scomparire. Nel loro totale abbandono al maestro, pareva che si arrendessero anche a me! Qualunque cosa facessi per loro, era opera del maestro; quanto a me, ero un puro tramite materiale, come una manopola da girare a destra o a sinistra. Non si poteva stabilire con loro un vero rapporto umano. Per un po', cercarono di convertirmi alla loro fede, ma al primo sentore di resistenza da parte mia, fecero le viste di ignorarmi. Persino tra di loro, i rapporti erano esigui; li collegava l'interesse comune per il maestro. L'insieme mi è sembrato freddo, quasi disumano. Un conto è considerarsi uno strumento nelle mani di Dio; ma sostenere che "tutto è Dio", e nient'altro merita attenzione, può condurre a un'indifferenza che rasenta la crudeltà. Alla fin fine, non c'è una guerra che non si faccia "nel nome di Dio". L'intera storia del genere umano è una successione di "guerre sante". Non si è mai così spietatamente impersonali come in guerra!
M.: Accanirsi, resistere, sono aspetti della volontà di essere. Se la scalzi, che ti resta? L'esistenza e la non-esistenza, in rapporto a qualcosa nello spazio e nel tempo - qui, ora, là, allora - che sono a loro volta mentali. La mente tira a indovinare; non è mai proprio certa, è affannata e inquieta. Ti irrita che ti prendano per il mero strumento di un qualche dio o maestro, e ci tieni a essere trattata come una persona perché non sei tanto certa di esistere, e non ti va di rinunciare al conforto e alla sicurezza di un'individualità. Puoi non essere quella che credi, ma ne trai un senso di continuità, il futuro ti fiotta nel presente, e scivola senza scosse nel passato. Sentirsi negare l'esistenza personale è terrificante, ma devi affrontarlo, e scoprire che sei tutt'uno con la totalità della vita. A quel punto non c'è più il problema di chi è usato da chi.
I.: Tutta l'attenzione che ottenni da quei ragazzi, si è ridotta a un tentativo di conversione. Quando feci resistenza, smisero di badarmi.
M.: Non si diventa discepoli per caso. C'è generalmente un legame antico, conservato attraverso più di una vita, che fiorisce sotto forma di amore e fiducia, senza il quale non c'è discepolato.
I.: Che cosa vi ha fatto decidere di diventare un maestro?
M.: Lo sono diventato perché mi hanno chiamato così. Io, chi sono per insegnare, e a chi? Tu sei ciò che io sono, e io sono ciò che tu sei. L'"io sono" è in comune(1), oltre l'"io sono" c'è l'immensità della luce e dell'amore(2). Non la vediamo, perché guardiamo altrove(3); posso solo indicarti il cielo; vedere le stelle è compito tuo. Alcuni ci mettono più tempo; altri meno; dipende dalla chiarezza della visione e dalla serietà della ricerca. Queste due qualità sono indispensabili; io posso solo incoraggiare.
I.: Che cosa dovrei fare se divento un discepolo?
M.: Ogni maestro ha un metodo, che rispecchia quasi sempre sia l'insegnamento del suo guru, sia la via che egli ha personalmente intrapreso; e anche una particolare terminologia. Dentro questo schema, si fanno gli adattamenti intonati alla personalità del discepolo. Gli si dà piena libertà di pensiero e ricerca(4), e lo si stimola a interrogare il contenuto del cuore. Da parte sua, il discepolo deve essere assolutamente certo della posizione e competenza del maestro, altrimenti la sua fede non sarà incrollabile né il suo agire completo. È l'assoluto in te che ti porta all'assoluto fuori di te: assoluta verità, amore e disinteresse, sono i fattori decisivi nell'autorealizzazione. Li ottieni se sei serio.
I.: Per diventare discepoli bisogna rinunciare alla famiglia e ai possessi?
M.: Dipende dal maestro. Alcuni presuppongono che i loro discepoli maturi diventino asceti e vivano in solitudine, altri incoraggiano la vita normale e i doveri familiari. I più ritengono che il modello di vita familiare sia più adatto della rinuncia, e si addica a una personalità più salda e meglio bilanciata. Invece ai primi stadi, può essere consigliabile la disciplina della vita monastica. Per questo nella tradizione indù i giovani sotto i venticinque anni sono addestrati a vivere come monaci - in povertà, castità e obbedienza - per dar loro una possibilità di temprarsi in vista delle future durezze e tentazioni della vita matrimoniale.
I.: Chi sono le persone raccolte in questa stanza? Vostri discepoli?
M.: Chiedilo a loro. Non è a livello verbale che si diventa discepoli, ma nelle profondità silenziose del proprio essere. Non scegli di diventarlo; è più un fatto di destino che di volontà personale. Chi sia il maestro non è molto importante: tutti ti augurano il tuo bene. È il discepolo che conta: la sua onestà e serietà. Il giusto discepolo incontra sempre il giusto maestro.
I.: Ci attrae molto una vita dedicata alla verità, accanto a un maestro competente e amorevole. Sfortunatamente, dobbiamo tornare in Inghilterra.
M.: La distanza non conta. Se i vostri desideri sono forti e sinceri, la vita vi porterà a esaudirli. Seminate il vostro seme, e lasciate fare alle stagioni.
I.: Quali sono i segni del progresso nella vita spirituale?
M.: Libertà da ogni ansia; un senso di agio e gioia; una profonda pace dentro, e tanta energia all'esterno.
I.: Come ci siete riuscito?
M.: Tutto emanava dalla santa presenza del maestro; non ho fatto nulla da me. Mi disse di essere quieto(5): e io lo fui - per quanto potevo -.
I.: La vostra presenza è potente quanto la sua?
M.: Come faccio a saperlo? Per me, la sua, è l'unica presenza(6). Se sei con me, sei con lui.
I.: Ogni maestro mi rimanderà al suo. Dov'è il punto di partenza?
M.: Nell'universo c'è un potere che opera per l'illuminazione e la liberazione. Noi lo chiamiamo Sadashiva, colui che dimora nei nostri cuori, e li unisce. L'unità, libera. La libertà, unisce. In ultima analisi, nulla è mio o tuo: tutto è nostro. Sii unita a te, e sarai unita al tutto, a casa nell'universo.
I.: Vivremo queste gioie semplicemente aderendo all'"io sono"?
M.: La via semplice è quella sicura, non la complessa. Per un motivo o per l'altro, la gente non dà credito a ciò che è semplice, facile, a portata di mano. Perché non metti onestamente alla prova quello che dico? Può sembrare dimesso, minimo, come un seme che si trasforma in un grande albero. Datti una possibilità!
I.: Quanta gente vedo qui: tranquilla. Perché sono venuti?
M.: Per incontrare se stessi. Il mondo, a casa loro, è troppo affollato. Qui, nulla li disturba; sono in vacanza dalle cure quotidiane, e in contatto con l'essenziale dentro di sé.
I.: Come ci si allena all'autoconsapevolezza?
M.: Non occorre allenamento. Non c'è un tipo nuovo o speciale di consapevolezza da sviluppare. Essa è sempre con te. Volgi l'attenzione dall'esterno all'interno.
I.: Aiutate la gente di persona?
M.: Mi portano i loro problemi. Sembra che un certo aiuto l'ottengano, altrimenti non verrebbero.
I.: Avete conversazioni anche in privato?
M.: A seconda di come desiderano. Personalmente, non distinguo fra pubblico e privato.
I.: Siete sempre disponibile, o avete altri impegni?
M.: Sono sempre disponibile, ma le ore del mattino e del tardo pomeriggio sono le più adatte.
I.: L'opera di un maestro spirituale è certo la più nobile.
M.: È il motivo che conta.



Tratto da Io sono Quello
Rizzoli Editore - Milano 1981, 82
Introdotto, curato e tradotto da Grazia Marchianò
Riprodotto su autorizzazione


Vedi Eckhart:
(E2 a pag. 145) Più una cosa è nobile, più è comune a tutti. Io ho i sensi in comune con gli animali e la vita in comune con le piante. L'essere mi è interiore ancora di più, e l'ho in comune con tutte le creature.
Vedi Eckhart:
(E1 a pag. 269)Io e te, una volta che la luce eterna ci ha avvolti, siamo una cosa sola. Questo due-uno è un ardente spirito, che sta sopra tutte le cose e sotto Dio, nel circolo dell'eternità. Esso è due, perché vede Dio non immediatamente [...] Si vede Dio solo quando lo si vede spiritualmente, del tutto senza immagini. Allora l'uno diventa due, il due è l'uno, luce e spirito, i due sono uno nell'essere avvolti dalla luce eterna.
Vedi Eckhart:
(V1 a pag. 168) C'è nell'anima qualcosa in cui Dio vive; c'è un qualcosa nell'anima in cui l'anima vive in Dio. Ma quando l'anima si volge verso le cose esteriori, essa muore, e anche Dio muore per l'anima.
Vedi Eckhart:
(E1 a pag. 162) A questo mira tutto ciò che si può consigliare e insegnare: che l'uomo si lasci condurre, e non abbia che Dio in vista, per quanto questo si possa presentare con molte e diverse parole.
Vedi Eckhart:
(E1 a pag. 155) L'uomo non può offrire a Dio niente di meglio della quiete. Dio non tiene in conto le veglie, i digiuni, le preghiere e le mortificazioni, e non ne ha bisogno, al contrario della quiete. Dio non ha bisogno di altro se non che gli si offra un cuore tranquillo.
Vedi Margherita:
(MP, cap. 91) Qui non c'è nessuno tranne lui; nessuno ama tranne lui, perché nessuno è, tranne lui.