Nisargadatta Maharaj
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82. 11 Dicembre 1971




I.: La guerra è in corso [il conflitto fra India e Pakistan scoppiato in quell'anno]. Qual è il vostro atteggiamento in proposito?
M.: In un posto o nell'altro, in una forma o nell'altra, c'è sempre una guerra. Si è mai dato un tempo senza guerre? Alcuni dicono che è la volontà di Dio. Altri, che è il suo gioco. È un altro modo di riconoscere che le guerre sono inevitabili e che nessuno è responsabile.
I.: Ma qual è il vostro atteggiamento?
M.: Perché mi imponi per forza degli atteggiamenti? Non ne ho nessuno che riconosca per mio.
I.: Certamente qualcuno è responsabile di questa orribile e insensata carneficina. Perché la gente è così pronta a uccidersi?
M.: Cerca il colpevole all'interno. Le idee di "io" e " mio" sono alla radice di ogni tensione. Lìberatene e sarai fuori del conflitto.
I.: E anche se ne fossi fuori? Ciò non sopprimerebbe la guerra. Se io ne fossi la causa, sarei pronto a farmi distruggere, ma è chiaro che la scomparsa di un migliaio di persone come me, non arresterà le guerre. Non sono iniziate alla mia nascita, e non finiranno alla mia morte. Non dipendono da me. E da chi?
M.: Contesa e lotta sono parte dell'esistenza. Cerca allora il responsabile dell'esistenza.
I.: Perché, secondo voi, l'esistenza e il conflitto sono inseparabili? Non può esserci un'esistenza senza lotta? Non devo combattere gli altri per essere me stesso.
M.: È invece proprio quello che fai ininterrottamente, per sopravvivere come un corpo-mente a sé stante, come un nome-e-forma individuale. Per vivere devi distruggere. Dal momento in cui fosti concepito, hai ingaggiato una guerra con l'ambiente: una guerra di mutuo sterminio, finché la morte ti libererà.
I.: Continuate a non rispondere alla domanda. Non fate che descrivere il noto: la vita e le sue pene. Ma non dite chi è il responsabile. Se vi metto alle strette, gettate il biasimo su Dio, sul karma, o sulla mia stessa avidità e paura - alimentando ulteriori domande -. Datemi la risposta finale.
M.: Questa è la risposta finale: niente è. Tutto appare momentaneamente nel campo della coscienza universale; la continuità di nome-e-forma è solo mentale, e facilmente vanifica.
I.: La mia domanda riguarda l'immediato presente, il transitorio, l'apparenza. Ecco la fotografia di un bambino ucciso dai soldati. Quel bambino vi guarda - è un fatto innegabile -. Chi è responsabile della sua morte?
M.: Tutti e nessuno. Il mondo è il suo contenuto, e ogni cosa influenza tutte le altre. Tutti uccidiamo il bambino, e tutti moriamo insieme a lui. Ogni evento ha parecchie cause e produce innumerevoli effetti. È inutile tenere i conti, nulla è rintracciabile.
I.: La vostra gente parla di karma e ricompensa.
M.: Non è che una rozza approssimazione: in realtà siamo tutti creatori e creature l'uno dell'altro, infliggiamo e portiamo il fardello reciproco.
I.: Così l'innocente soffre per il colpevole?
M.: Nell'ignoranza siamo innocenti: nelle azioni, colpevoli. Pecchiamo senza saperlo e soffriamo senza comprendere. La nostra sola speranza è: fermarci, guardare, capire e svincolarci dalla trappola della memoria. Perché essa nutre l'immaginazione, che a sua volta produce il desiderio e la paura.
I.: E perché si immagina?
M.: La luce della coscienza attraversa il film della memoria e proietta le immagini sul cervello. Ma poiché questo è carente e caotico, percepisci in modo distorto e influenzato dai sentimenti di piacere e dispiacere. Metti in ordine il tuo modo di pensare, sfrondalo degli eccessi emotivi, e vedrai le persone e le cose come sono, con chiarezza e compassione.
Il testimone della nascita, della vita e della morte, del dolore e dell'amore, è unico. Amiamo l'esistenza che nella sua limitazione e separazione è dolorosa, e allo stesso tempo la odiamo. Lottiamo, uccidiamo, distruggiamo la vita e i beni, tuttavia siamo capaci di affetto e sacrificio. Nutriamo teneramente il figlio e anche l'orfano. Siamo pieni di contraddizioni. Eppure ci aggrappiamo alla vita. Alla radice dell'esistenza c'è proprio questo aggrapparsi, benché sia poi del tutto superficiale. Ci avvinghiamo a qualcosa o a qualcuno con tutte le forze e il momento dopo lo dimentichiamo, come un bambino che fa le sue formine di fango, e subito le abbandona. Toccagliele: strillerà di rabbia; distrailo, e le dimenticherà. Perché la nostra vita e l'amore per essa, è ora. Amiamo l'altalena del dolore e del piacere, i contrasti ci affascinano. Per questo ci occorrono gli opposti e la loro distanza apparente. Per un po' ne godiamo, poi ce ne stanchiamo e invochiamo la pace e il silenzio del puro essere. Il cuore cosmico batte incessantemente. Io sono il testimone e anche il cuore.
I.: Vedo il quadro, ma chi è il pittore? Chi è responsabile di questa tremenda e adorabile esperienza?
M.: Il pittore è nel quadro. Ma tu prima lo isoli dal quadro e poi lo cerchi. Non separarlo e non porre falsi problemi. Le cose sono come sono, e nessuno in particolare ne è responsabile. L'idea di responsabilità personale viene dall'illusione che ci sia un attore: "Qualcuno deve averlo fatto, qualcuno ne è responsabile". La società com'è ora, col suo schema di leggi e costumi, si fonda sull'idea di una personalità separata e responsabile; ma questa non è che una fra svariate strutture sociali. Ve ne possono essere altre, in cui l'isolamento è debole, e la responsabilità diffusa.
I.: Un individuo con scarso senso di responsabilità, è più vicino all'autorealizzazione?
M.: Prendi a esempio il bambino. L'"io sono" non si è ancora espresso, la personalità è appena abbozzata. Ha pochi ostacoli alla conoscenza di sé, ma gli mancano la chiarezza e la forza della consapevolezza, la sua ampiezza e profondità.
Col passare del tempo, alla crescita della consapevolezza si accompagna anche quella della personalità latente, che tende a oscurare la consapevolezza e a complicare l'insieme. Come la fiamma è tanto più gagliarda quanto più duro è il legno; così, quanto più forte è la personalità, tanto più brillante sarà la luce sprigionata dalla sua distruzione(1).
I.: Uno come voi ha dei problemi?
M.: Certo che ne ho. Te l'ho già detto. Essere, avere un nome e una forma, è doloroso, eppure io l'amo.
I.: Ma voi amate tutto!
M.: Tutto è contenuto nell'esistenza. La mia stessa natura è amore; anche ciò che è doloroso è amabile.
I.: Ma non per questo è meno doloroso. Perché non rimanere nell'illimitato?
M.: È l'istinto di esplorazione, l'amore dell'ignoto, che mi porta a esistere. È nella natura dell'essere, vedere l'avventura nel divenire, come è nella natura del divenire cercare la pace nell'essere. Questo alternarsi di essere e divenire è inevitabile; ma la mia dimora è oltre.
I.: In Dio?
M.: Amare e adorare un Dio è ancora ignoranza. La mia dimora è di là da ogni nozione, per eccelsa che sia(2).
I.: Ma Dio non è una nozione! È la realtà oltre l'esistenza.
M.: Puoi usare le parole che vuoi. Quali che siano i tuoi pensieri, io sono oltre.
I.: Se conoscete la vostra casa, perché non la abitate? Che cosa vi spinge fuori?
M.: Si nasce a causa dell'amore per l'esistenza corporea, e si è subito coinvolti dal destino, che è inseparabile dal divenire. Il desiderio di essere il particolare, ti fa diventare una persona con tutto il suo bagaglio di passato e futuro. Osserva un grande uomo, è meraviglioso! Eppure, com'è stata problematica e scarsa di frutti la sua vita. D'altronde, la personalità umana non ha la minima indipendenza, e vive in un mondo impassibile. Nondimeno la amiamo, e la proteggiamo perché è futile.
I.: Con la guerra in corso c'è il caos, e vi hanno chiesto di badare a un centro per la distribuzione del cibo. Tutto è pronto, basta mettersi al lavoro. Rifiuterete?
M.: Lavorare o no per me è lo stesso. Potrei sia accettare che rifiutare. Potrebbero esserci altri più competenti di me, ad esempio vivandieri di professione. Ma il mio atteggiamento è diverso. Per me la morte non è una calamità, così come la nascita di un bambino non è una gioia. Il bambino va verso i guai, il morto ne è fuori. L'attaccamento alla vita è attaccamento al dolore. Amiamo ciò che ci fa soffrire. Tale è la nostra natura. Per me la morte sarà un momento di giubilo, non di paura. Piangevo quando nacqui, e morirò ridendo.
I.: In che modo cambia la coscienza al momento della morte?
M.: Che cambiamento ti aspetti? Quando termina la proiezione del film, tutto ritorna com'era prima che incominciasse. Lo stato prima della tua nascita era identico a quello dopo la morte, se ricordi.
I.: Non ricordo nulla.
M.: Perché non hai mai provato. Basta sintonizzarsi. Richiede allenamento, naturalmente.
I.: Perché non collaborate all'assistenza sociale?
M.: Ma se non faccio altro! Quale lavoro sociale diverso dal mio, vorresti assegnarmi? Rappezzare non è il mio genere. La mia idea è presto detta: produrre e distribuire, nutrire gli altri prima che se stessi, dare prima di prendere, pensare a sé dopo che agli altri. Solo una società altruista, basata sulla spartizione, può essere stabile e felice. Questa è l'unica soluzione pratica. Se non la vuoi, fa' la guerra.
I.: Tutto dipende dall'influenza di una qualità (guna) sulle altre. Dove il tamas e il rajas prevalgono, deve esserci guerra. Dove regna il sattva, ci sarà la pace.
M.: Comunque la metti, le cose non cambiano. La società è costruita sui moventi. Metti nelle fondamenta la buona volontà e non ti occorreranno assistenti sociali specializzati.
I.: Il mondo va migliorando.
M.: Il mondo ha avuto tutto il tempo di migliorare, ma non l'ha fatto. Che speranza c'è per il futuro? Naturalmente, col sattva in ascesa, ci sono stati e ci saranno periodi di armonia e pace; ma le cose sono distrutte dalla loro stessa perfezione. Una società perfetta è necessariamente statica, perciò diviene stagnante e declina. Dalla vetta tutte le strade conducono in basso. Le società sono come persone: nascono, crescono fino a un punto di relativa perfezione, poi decadono e muoiono.
I.: Può esserci uno stato di assoluta perfezione non soggetto al declino?
M.: Tutto ciò che ha un inizio deve avere una fine. Nel senza-tempo, qui-ora, tutto è perfetto.
I.: Quando raggiungeremo il senza-tempo?
M.: A tempo debito torneremo al punto di partenza. Né il tempo né lo spazio possono condurci fuori delle loro dimensioni. Tutto ciò che si ottiene aspettando, è ancora un'attesa. La perfezione assoluta è qui-ora, non in un futuro, vicino o lontano. Il segreto è nell'azione - qui e ora -. È la tua condotta che ti rende cieco a te stesso. Non curarti di ciò che pensi di essere, e agisci come se fossi assolutamente perfetto - qualunque sia la tua idea di perfezione(3) -. Ti occorre solo il coraggio.
I.: Dove lo trovo?
M.: In te, naturalmente. Guàrdati dentro.
I.: La vostra grazia gioverà.
M.: La mia grazia dice: guarda dentro. Hai tutto ciò che ti occorre. Usalo. Compòrtati meglio che puoi, fa' ciò che pensi di dover fare. Non temere gli errori; puoi sempre correggerli, solo le intenzioni contano. La forma che le cose prendono non è in tuo potere; i motivi delle tue azioni sì(4).
I.: Come può un'azione imperfetta portare alla perfezione?
M.: L'azione non porta alla perfezione; è la perfezione che si esprime nell'azione. Finché ti giudichi dall'esterno, dai un'enorme importanza ai gesti che compi; ma solo dopo che avrai penetrato il tuo essere, il tuo comportamento sarà spontaneamente perfetto(5).
I.: Se la mia perfezione è al di fuori del tempo, perché sono nato? Qual è lo scopo di questa vita?
M.: È come domandare: quale vantaggio viene all'oro a diventare un gioiello? Il gioiello acquista il colore e la bellezza dell'oro; l'oro non si arricchisce. Analogamente, la realtà espressa in azione, la rende bella e significativa.
I.: Che guadagno ha il reale a esprimersi?
M.: Nessuno. L'amore tende naturalmente a esprimersi, affermarsi, superare le difficoltà. Quando avrai capito che il mondo è amore in azione, lo vedrai in un modo tutto diverso. Ma prima deve cambiare il tuo atteggiamento verso la sofferenza, che è anzitutto una richiesta di attenzione, essa stessa un moto d'amore. Più che la felicità, l'amore vuole la crescita, l'allargamento e l'approfondimento della coscienza e dell'essere. Tutto ciò che lo impedisce, diviene causa di dolore, e l'amore, si sa, non si sottrae al dolore. Il sattva, l'energia che opera a favore della giustizia e di uno sviluppo ordinato, non deve essere ostacolato. Altrimenti, si rivolta contro se stesso e diviene distruttivo. Ogni volta che si frena l'amore e si permette alla sofferenza di espandersi, la guerra diventa inevitabile. La nostra indifferenza alla pena del vicino, porta la pena alla nostra porta.



Tratto da Io sono Quello
Rizzoli Editore - Milano 1981, 82
Introdotto, curato e tradotto da Grazia Marchianò
Riprodotto su autorizzazione


Vedi Eckhart:
(E2 a pag. 89) Più la lotta è grande e faticosa, maggiori sono anche, e più lodevoli, la vittoria e l'onore.
Vedi Eckhart:
(E1 a pag. 129) Perciò io dico: se l'uomo si distoglie da se stesso e da tutte le cose create - tanto tu fai questo, tanto sei unito e felice nella scintilla dell'anima, che non tocca mai né il tempo né lo spazio. Questa scintilla rifiuta tutte le creature, e non vuole altro che Dio nella sua nudità, come è in se stesso. Non le bastano né il Padre né il Figlio né lo Spirito santo, e neppure le tre Persone insieme, in quanto ciascuna permane nella sua particolarità. Io dico in verità che a questa luce non basta neppure l'unicità del fecondo seno della natura divina. Voglio dire ancora qualcosa di più, che suonerà ancor più stupefacente: dico nella eterna e sempre permanente verità che a questa luce non basta l'essere divino unico, impassibile, che non dà né riceve: essa vuole sapere da dove questo essere provenga; essa vuole penetrare nel semplice fondo, nel silenzioso deserto, dove mai ha gettato uno sguardo la distinzione, né Padre né Figlio né Spirito santo. Nella interiorità più profonda, dove nessuno è in patria, là trova soddisfazione questa luce, e là essa è in una interiorità più profonda di quanto sia presso se stessa. Infatti questo fondo è un semplice silenzio, immobile in se stesso; da questa immobilità vengono mosse tutte le cose.
Vedi Margherita:
(MP, cap. 34) Vi conviene fare qualche cosa, e al meglio che potrete.
Vedi Eckhart:
(E5, num. 307) Presso gli uomini, che vedono le cose di fuori, l'atto esteriore viene giudicato buono e migliore di quello interiore, oppure cattivo e peggiore, mentre presso Dio, che scruta il cuore e l'intenzione, al contrario l'atto interiore è di gran lunga più importante, ovvero esso solo è propriamente buono o cattivo.
Vedi Eckhart:
(E6, num. 26) Il merito non consiste nel numero, nella grandezza o durata degli atti, ma soltanto nell'intenzione.
Vedi Eckhart:
(E2 a pag. 63) Non si dovrebbe tanto pensare a ciò che si fa, quanto piuttosto a ciò che si è: se si fosse buoni come il nostro modo di essere, le nostre opere risplenderebbero luminose. Se tu sei giusto, anche le tue opere sono giuste. Non pensare che la santità si fondi sulle opere, si deve fondare la santità sull'essere, giacché non sono le opere che ci santificano, siamo noi che dobbiamo santificare le opere. Per quanto sante siano le opere, esse non ci santificano assolutamente in quanto opere, ma, nella misura in cui siamo santi e possediamo l'essere, in questa misura noi santifichiamo le nostre opere - sia ciò mangiare, dormire, vegliare, o che sia -. Quelli che non sono di natura nobile, quali che siano le opere che compiono, esse non valgono niente.