Nisargadatta Maharaj
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59. 29 Maggio 1971




I.: Vorrei ritornare sulla questione del piacere e del dolore, del desiderio e della paura. Capisco la paura, che è ricordo e anticipazione del dolore. Essa è essenziale per la conservazione dell'organismo e della sua forma vitale. I bisogni, avvertiti come tali, sono dolorosi e la loro anticipazione è piena di paura: a ragione e giustamente temiamo di non saper soddisfare i nostri bisogni fondamentali. Il sollievo provato colmando un bisogno o placando una preoccupazione deriva dalla cessazione del dolore. Possiamo definirlo al positivo, piacere, gioia o felicità, ma è essenzialmente sollievo dal dolore. È questa paura del dolore che tiene insieme le nostre istituzioni sociali, economiche e politiche.
Ciò che mi intriga è che traiamo piacere da condizioni esterne e interiori che non hanno nulla a che fare con la sopravvivenza. Al contrario, i nostri piaceri sono generalmente distruttivi. Danneggiano o colpiscono l'oggetto, lo strumento e anche il soggetto del piacere. Se non fosse così, il piacere e la ricerca del piacere non sarebbero un problema. Questo mi porta al nocciolo della domanda: perché il piacere è distruttivo? E perché, ciò nonostante, lo s'insegue?
Posso aggiungere che non ho in mente il plesso piacere-dolore, secondo il quale la natura c'impone le sue leggi. Penso piuttosto ai piaceri creati dall'uomo, da quelli sensoriali e grossolani, come l'ingordigia, ai più sottili e raffinati. La cieca dedizione al piacere è così universale che deve esserci qualcosa di significativo alla base.
Naturalmente, non tutte le attività dell'uomo devono essere utilitarie, volte a soddisfare un desiderio. Anche il gioco è naturale, e l'uomo è il più ludico tra gli animali. Il gioco soddisfa il bisogno di scoprire e sviluppare se stessi. Ma anche nel gioco l'uomo diventa distruttivo verso la natura, gli altri e se stesso.
M.: Se non sbaglio, non ti opponi al piacere ma al suo prezzo in dolore e sofferenza.
I.: Se la realtà è in sé beatitudine, in un certo senso il piacere dovrà esserle correlato.
M.: Non procediamo per logica verbale. La gioia della realtà non esclude la sofferenza. Inoltre, tu conosci il piacere, ma non la beatitudine del puro essere. Perciò esaminiamo il piacere al suo livello.
Se ti osservi mentre provi piacere o dolore, ti accorgerai che non è piacevole o dolorosa la cosa in sé, ma la situazione di cui fa parte. Il piacere sta nel rapporto tra colui che gode e la cosa goduta. E la sua essenza è l'accettazione. Quale che sia la situazione, se è accettata è piacevole; se no, è dolorosa. Non importa che cosa la rende accettabile: la causa può essere fisica, psicologica o di altra natura; ciò che conta è l'accettazione(1). Inversamente, la sofferenza deriva dalla non-accettazione.
I.: Non si può accettare il dolore.
M.: Perché no? Hai mai provato? Provaci, e troverai nel dolore una gioia che il piacere non può dare(2), semplicemente perché l'accettazione del dolore ti porta molto più in profondità di quanto non faccia il piacere. Il sé personale cerca naturalmente il piacere e tende a evitare il dolore. La fine di questo impianto è la fine stessa del sé. La fine del sé con i suoi desideri e le sue paure ti consente di tornare alla tua natura, alla fonte di ogni felicità e pace. L'insaziabile desiderio di piacere è il riflesso della perenne armonia interiore(3). Si diventa autocoscienti solo quando si è presi nella stretta tra piacere e dolore e s'impone una scelta, una decisione. È il conflitto tra desiderio e paura che provoca l'ira, la grande demolitrice della salute mentale e della vita. Quando il dolore è accettato per quello che è, una lezione e un avvertimento, ed è osservato e curato alla radice, lo stacco tra dolore e piacere si annulla, ambedue diventano una prova - dolorosa quando le si resiste, felice quando la si accetta -.
I.: Suggerite di evitare il piacere e inseguire il dolore?
M.: Né l'uno né l'altro, ma accettali quando vengono, godili finché durano, e poi dimettili, perché vanno via comunque.
I.: Come posso godere del dolore? Il dolore fisico si nutre di azione.
M.: Certo. E anche quello mentale. La somma gioia sta nel saperlo e nel non sottrarvisi in alcun modo. La felicità sta nella consapevolezza. Più siamo consapevoli, maggiore è la gioia. L'accettazione del dolore, la non-resistenza, il coraggio e la forza di sopportazione, disserrano fonti profonde e perenni di vera felicità e altissima gioia.
I.: Perché il dolore sarebbe più efficace del piacere?
M.: Il piacere si accoglie subito, mentre il sé con tutte le sue forze rifiuta il dolore. Poiché l'accettazione del dolore è la negazione del sé, e il sé è sulla via della vera felicità, la piena accettazione del dolore libera le sorgenti della gioia.
I.: L'accettazione della sofferenza funziona allo stesso modo?
M.: Il dolore è subito messo a fuoco dalla consapevolezza, per la sofferenza non è così semplice. La vita mentale che conosciamo è un flusso ininterrotto di sofferenza, sicché la messa a fuoco non basta. Per raggiungere gli strati più profondi della sofferenza, devi andare alle sue radici e scoprire la vasta rete sotterranea dove paura e desiderio sono avvinti, e le correnti dell'energia vitale si contrappongono e distruggono l'un l'altra.
I.: Come posso dipanare questa matassa subliminale?
M.: Aderendo a te stesso, all'"io sono", osservandoti con attenzione nella vita di ogni giorno, pronto a capire più che a giudicare. Se accogli senza riserve qualunque sviluppo degli eventi interiori, faciliti l'emersione in superficie dei contenuti profondi, arricchisci la tua vita e liberi le energie latenti. Questa è la grande opera della consapevolezza: rimuove gli ostacoli e svincola le energie, grazie alla comprensione della natura della vita e della mente. L'intelligenza è il varco alla libertà e l'attenzione vigile è la madre dell'intelligenza.
I.: Ancora una domanda. Perché il piacere finisce in dolore?
M.: Tutto inizia e finisce, e così pure il piacere. Non anticipare e non rimpiangere, e non soffrirai. La memoria e l'immaginazione sono la causa della sofferenza.
Il dolore che subentra al piacere facilmente deriva da un abuso fisico o mentale. Il corpo conosce i suoi limiti, la mente no. I suoi appetiti sono illimitati. Osserva la tua mente con diligenza, perché lì è la tua schiavitù e anche la chiave della libertà.
I.: Non avete risposto completamente alla domanda: perché i piaceri sono distruttivi? Perché l'uomo gode tanto a distruggere? L'interesse della vita per se stessa sta nella sopravvivenza e nell'accrescimento, e a tal fine è guidata dal dolore e dal piacere. A che punto essi diventano distruttivi?
M.: Quando la mente prende il sopravvento, ricordando e anticipando, esagera, distorce, stravede. Il passato è proiettato nel futuro, che a sua volta tradisce le aspettative. Gli organi della sensazione e dell'azione vengono stimolati oltre le loro capacità e inevitabilmente si usurano. Gli oggetti di piacere, incapaci di soddisfare nella misura delle attese, sono esautorati o distrutti dall'abuso. Ne risulta un eccesso di dolore, proprio dove si cercava il piacere.
I.: Non distruggiamo solo noi stessi, ma anche gli altri.
M.: È vero, l'egoismo è sempre distruttivo. II desiderio e la paura sono egocentrici. Tra il desiderio e la paura s'insinua la rabbia, con la rabbia l'odio, e con esso la voglia di distruzione. La guerra è odio in azione, organizzata ed equipaggiata con tutti gli strumenti della morte.
I.: C'è modo di porre fine a questi orrori?
M.: Quando un numero crescente di persone diventerà consapevole, e la loro influenza si farà sentire, anche solo impercettibilmente, l'atmosfera emotiva del mondo sarà mitigata. La gente seguirà le sue guide e quando in mezzo ad esse appariranno alcuni esseri compassionevoli, illuminati, e indifferenti al proprio tornaconto, la loro presenza sarà sufficiente a impedire le asprezze e i crimini dell'era presente. Una nuova età dell'oro potrà profilarsi, durare un certo tempo e tramontare al culmine della sua perfezione. Il riflusso del mare comincia al massimo dell'alta marea.
I.: In quale caso la perfezione è durevole?
M.: Quando include tutte le perfezioni. La pienezza della nostra natura intrinseca rende tutto possibile, percepibile, attraente. Non conosce pena, poiché nulla le è gradito o sgradito, nulla accetta o rifiuta. Creazione e distruzione sono i poli tra i quali fa librare il suo stampo cangiante. Lìberati dalle predilezioni, e la mente col suo carico di affanni non sarà più.
I.: Ma non sono il solo a soffrire.
M.: Quando ti accosti agli altri con i tuoi desideri e le tue paure, non fai che accrescere l'angustia generale. Liberati tu prima dalla sofferenza, e potrai sperare di aiutare gli altri. Non c'è nemmeno bisogno di sperare: la tua stessa esistenza sarà il massimo aiuto che un uomo possa dare ai suoi compagni di via(4).



Tratto da Io sono Quello
Rizzoli Editore - Milano 1981, 82
Introdotto, curato e tradotto da Grazia Marchianò
Riprodotto su autorizzazione


Vedi Eckhart:
(E1 a pag. 162) Una coscienza bene ordinata sarà aiutata dal fatto di non prestare attenzione alle cose accidentali; occorre che l'uomo, ben raccolto in se stesso, abbandoni completamente a Dio il proprio volere, ed accetti qualsiasi cosa da Dio come identica: grazia o che altro sia, esteriore o interiore.
Vedi Eckhart:
(E2 a pag. 119) Niente è più amaro del soffrire, ma niente è di una dolcezza più melliflua dall'aver sofferto.
Vedi Eckhart:
(E1 a pag. 147) Potresti ora chiedere: cosa dunque opera Dio senza immagine, nel fondo e nell'essere? Io non posso saperlo, perché le potenze dell'anima possono concepire solo in immagini [...] e rimane loro nascosto quel che Dio opera nel fondo; ciò è per l'anima la cosa più utile. Infatti questo non-sapere la sospinge come verso qualcosa di meraviglioso, di cui essa va alla ricerca, giacché esperimenta bene che esso v'è, ma non sa come e cosa sia.
Vedi Margherita:
(MP, cap. 117) Io sono esempio di salvezza. Più ancora, la salvezza stessa di tutte le creature.